The Rossellinis, storia di una famiglia a confronto con il genio

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“Nonno ha lasciato al mondo intero i suoi capolavori, a noi invece un enorme patrimonio di conflitti”.

Si apre così il viaggio di Alessandro Rossellini che racconta la sua speciale famiglia allargata. Al centro del già premiato documentario l’aura di Roberto Rossellini, maestro del cinema, tra i padri del neorealismo, che con Roma città aperta ha fatto conoscere al mondo il cinema italiano, in un dipinto del tutto inedito prima di uomo che d’artista. Un personalissimo e acuto ritratto di famiglia fatto dal nipote Alessandro che raggiungiamo telefonicamente durante il viaggio di rientro dal “suo vero lavoro”, come lui stesso afferma perché “è la cosa a cui tengo di più”, in una struttura per tossicodipendenti, il Centro San Nicola, nelle Marche, dove porta la sua esperienza da ex tossico che ha vinto la sua battaglia contro la dipendenza. Ma questa è la storia di un’altra dipendenza, forse di “familismo”, quella di un nome troppo importante da portare.

Il suo primo film, The Rossellinis, è Nastro d’Argento 2021 come miglior documentario sul cinema e oggi nella cinquina finalista ai David come miglior documentario. Come ha preso questa notizia? Se l’aspettava?

Assolutamente non me l’aspettavo. Sono veramente in una fase di grande eccitazione. I film possono andar male o andare bene, ma possono anche rimanere totalmente anonimi. Per essere una storia familiare, anche se con alcuni nomi famosi, il mio sta andando veramente bene. Ne sono sorpreso e felice.

Pensando al tratto che ha dato al film a me viene in mente “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Kundera. Ciò che appare leggero in realtà non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile: essere il nipote di Roberto Rossellini.

È ovviamente così. Credo ci siano tanti aspetti che possano poi falsare i valori di una persona nella crescita. Il lavoro dei genitori è quello di contestualizzare e far capire le cose. Io però sono stato vittima dell’immaginario contrario. Nella mia famiglia non solo si credeva nella genialità di Roberto Rossellini ma lo si propagandava sia all’interno che all’esterno. Sono cresciuto credendo di essere “speciale in quanto…” e questo rientra in un livello di mancanza di informazioni basilari. Da lì è partita un po’ la mia disfunzionalità. 

Come nasce questo suo lavoro? La follia di girare il suo primo film a 55 anni?

La vera verità è che mi sono trovato nel mio periodo di recupero, quando avevo già un po’ di anni di pulizia dalla tossicodipendenza e dall’alcolismo, ancora sporco di macerie e al tempo stesso non avevo un lavoro sostanzioso che mi permettesse di occuparmi in maniera doverosa dei miei figli, che nel frattempo erano diventati due. E quindi, un po’ sempre alla Rossellini maniera, mi sono chiesto “come la posso sfangare?”. Molto brutalmente ma anche in maniera del tutto ingenua ho pensato a quanto fosse bella la nostra storia, la mia provenienza, quella dei miei zii e di mio padre. Hanno tutti storie molto interessanti anche per le loro scelte di vita. Sono partito da stereotipi, dai Rossellini per come vengono visti: mio padre (Renzo n.d.r.) ex rivoluzionario poi produttore, secondo me vittima dell’imponenza e della grandezza del padre; Robin, primo figlio di Ingrid, il playboy che si è trasferito in un’isola deserta in Svezia; le due gemelle diverse (Ingrid e Isabella n.d.r.), una intellettuale l’altra che invece ha avuto un’incredibile carriera grazie alla sua bellezza, alla strategia e alla competenza; la figura molto drammatica, quasi shakespeariana di Gil; e poi, altro personaggio interessantissimo, Nur, ex Raffaella, e la sua conversione all’Islam.

Questo film è un doppio viaggio, quello suo, intimo e personale, e il viaggio proprio fisico, in giro per il mondo a ricomporre i tasselli di una grande famiglia. Quanto per lei si può dire sia stato terapeutico questo viaggio? Com’è andata con la cura della “Rossellinite”, questa malattia dei valori di cui parla anche nel film?

Quando ho cominciato questo viaggio di creazione ho iniziato anche la terapia, perché di terapia vera e propria si tratta quando si ha a che fare con la famiglia. Ho capito che poteva avere un grande potenziale nel mio percorso di vita, cioè quello dell’emancipazione, del migliorarsi, partendo da un mio problema, dal mio grande trauma che era quello della tossicodipendenza.

Mi ci sono affacciato per bisogno e con grande ingenuità, però poi si è rivelato fondamentale per capire alcune cose di me e degli altri, ma soprattutto ho visto che c’era questo fluido scambio di amore vero, famigliare. Cioè ho dato un valore alla famiglia che mi era un po’ ignoto e ho capito anche che se io sono amato, sono amabile e allora forse uno può essere anche come me, una persona con chiaroscuri.

Come l’hanno presa i Rossellini? Cosa ne pensano del film?

Quando si inizia a fare una storia, prima di rifinire devi buttare giù dei punti e a me era venuta chiara l’immagine di nonno come grande condizionatore, un po’ anche come il colpevole. Avevo sottolineato molto questa cosa insieme agli altri autori e collaboratori, Andrea Paolo Massara, lo sceneggiatore, e la montatrice Ilaria De Laurentis. Anche il produttore, Raffaele Brunetti, mi ha aiutato molto. Così ho fatto un montaggio rough cut, non raffinato e quindi forse un po’ brutale, per farlo visionare alla mia famiglia ed effettivamente un po’ tutti quanti si sono risentiti. Ma sono stati magnanimi e molto carinamente hanno suggerito alcuni cambiamenti. Ho seguito alcuni dei consigli e devo dire che hanno migliorato il documentario perché non è stato un perdere di verità, ma un mettere a fuoco le visioni. È importante dire che comunque è la mia visione, il mio punto di vista. È forse per questo che alcuni della famiglia, come magari Isabella e Ingrid, non ci si siano ritrovati completamente. È la visione di chi è stato negli anni nella competizione ipotetica familiare come perdente.

Isabella è quella che nella sua visione identifica anche come la più vicina caratterialmente a Roberto Rossellini, com’è il suo rapporto con lei? E in generale con chi ha legami più stretti della sua grande famiglia?

Chi sento tutti i giorni è mio padre, ma chi mi ha diciamo “rimodellato” è zia Isabella. Lei è stata quella che più di tutti ha compreso la latitudine della mia problematica. Isabella è anche un po’ la regista, è lei che tiene le fila di tutta la famiglia per capacità e forse anche per disponibilità. Lei sostiene che mio nonno e mia nonna Marcella, avendo perso il primo figlio, si sono un po’ ritrovati a essere i miei genitori quando sono nato, si sono riuntiti intorno a me. Quindi Isabella con me è zia, ma anche sorella più grande. Una sorta di guida. Ogni tanto per prenderla in giro le dico che la mia parte maschile l’ho presa da lei, che poi è quella anche che mi ha insegnato a lavorare. Insomma quel tipo di valori li ho presi da lei.

La sceneggiatura è stata scritta a più mani, come è riuscito a lavorare con altri ad una storia così personale?

Io non avevo nessuna capacità di arrivare fino in fondo, poi per fortuna il produttore mi ha messo accanto questo giovane sceneggiatore, Andrea Paolo Massara, e da lì è iniziato un percorsone di profonda psicoanalisi e anche di braccio di ferro, è naturale. Andrea aveva tutto quello che a me mancava. Lui sapeva scrivere e mentre io sono pigro, lui è instancabile. Abbiamo lavorato prima sulle mie interviste, per mettere a fuoco il film, ma il grande lavoro di sceneggiatura è stato fatto in montaggio. Abbiamo impiegato un paio d’anni a cercare di raffinare questo progetto…

Progetti sul cinema?

Questo mettermi in gioco nelle storie mi è piaciuto e adesso sto preparando un altro progetto che è la relazione tra me e Michel Comte, che è stato un grandissimo fotografo negli anni ’80 e anche la prima persona con cui ho lavorato. Abbiamo un profondo legame, vorrei analizzare proprio quello con l’idea di capire qualcosa sulla creatività. Lui negli anni ha abbandonato quasi completamente la fotografia per diventare un artista figurativo e sta avendo grande successo. Il documentario sarà un po’ su questa stessa lunghezza d’onda: la società sarà soltanto esecutiva. Inoltre mi sto facendo aiutare a mettere insieme il progetto dal mio grande amico, compagno di tante avventure e sventure, Alex Infascelli.