Quelle storie che, seppur finte, salvano il mondo

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Orecchie” è stato uno dei film di interessanti del Festival di Venezia nel 2016. La regia è di Alessandro Aronadio, il quale aveva già dato prova del suo talento nel 2010 con “Due vite per caso”, opera prima che al Festival di Berlino prese largo consenso tra la critica.

Il film racconta la storia di un uomo che si sveglia con un grande fischio alle orecchie ma che a detta degli esperti sembra non esserci. Quel fischio, vedremo dopo, non è altro che il “rumore dei pensieri.” Da dove sei partito per scrivere il film?

Son partito da un modo di vedere la realtà. Avevo la percezione di un mondo che stava andando in una direzione che non era necessariamente uguale alla mia. L’essere umano è portato a far parte di un gruppo e inevitabilmente c’è l’istinto alla conformazione, però dall’altra parte c’è anche un bisogno di sancire la propria individualità. Quindi, l’idea di scegliere tra i due compromessi, di trovare un punto d’accordo tra due estremi, uniformarsi o scegliere una direzione propria e molto spesso contraria al gruppo, è qualcosa che mi ha sempre colpito, un tema che è presente anche in “Due vite per caso”, soltanto che qui è declinato in commedia. Anche lì c’è una dualità, in quel caso anche narrativa, tra la persona che sceglie una direzione controproducente e l’altra che sceglie di far parte di un gruppo. Anche in quel film si parla di compromesso. Qui invece c’è una visione di commedia, però sono anche passati molti anni e la parola social è diventata virale, perché bisogna essere social/sociali e quindi quel tipo di dubbio diventa quotidiano. Potremmo dire, con un esempio estremamente stupido, che la scelta è quella di avere un profilo social, uniformandosi a una follia comune mettendo a repentaglio la propria vita ma facendo parte di un gruppo, oppure scegliere il contrario e quindi essere visto come uno strano, un freak, lì c’è il bivio di cui parlo.

Quanto c’è di tuo all’interno della pellicola? In particolar modo nella scena finale, in un monologo che parla di crescita…

Parla di compromesso. Infatti, ci divertivamo molto durante le proiezioni a vedere come la prendesse il pubblico. Dopo la proiezione facevamo un’alzata di mano per chi pensava che fosse un finale amaro e per chi invece lo vedeva come un happy ending e più o meno la sala si divideva a metà perché credo che questo dipenda molto dalla propria disposizione nei confronti della società, per alcuni il compromesso è un qualcosa che permette di avere una vita migliore e per altri invece è una scelta forzata. Quindi ho capito che è film che racconta anche di me, sicuramente. La cosa che mi stupisce è che “Orecchie” è un film uscito circa quattro anni fa ma molti dei suoi temi diventano sempre più contemporanei, anche questa fiducia/sfiducia nell’altro in un’epoca come quella del covid in cui ci chiudiamo nei nostri nidi e tendiamo a vedere l’altro come una possibile minaccia. Questa lettura diventa ancora più contemporanea.

So che il budget del film era piuttosto ristretto, avete girato con 150 mila euro. Come è stata, da questo punto di vista, la lavorazione sul set e quali sono state le maggiori difficoltà che hai riscontrato?

Guarda, il film ha vinto il bando della Biennale collage del Festival di Venezia e quindi il budget era 150 mila euro e non si poteva sforare, era l’unica somma utilizzabile per le riprese. La lavorazione è stata veloce perché non c’era tempo e grazie alla produttrice Costanza Coldagelli siamo riusciti comunque a fare quello che ci eravamo preposti. Devo dire che il film nasce già dalla sceneggiatura come commedia low-budget perché inevitabilmente ti permette di avere una maggiore libertà, io lo definisco il “privilegio della povertà”. Quando poi mi sono confrontato con l’altro film, “Io c’è”, nonostante il tema fosse libero si trattava di un lavoro mainstream e inevitabilmente ho dovuto lavorare in maniera diversa, tra altre aspettative e compromessi. Invece qui, in estrema povertà, ho potuto realizzare il film come lo volevo sin dall’inizio, appunto in bianco e nero e con un attore sconosciuto e un tipo di ritmo da cinema muto, insomma tutto ciò che non avrei potuto fare con un altro tipo di budget. Se avessi avuto più soldi, il film sarebbe stato peggiore.

Concordo. Dopo la grande accoglienza ricevuta al Festival di Venezia cos’è cambiato? Ti aspettavi questo successo? Anche perché è grazie a quest’opera se hai potuto fare quel grande passo che ti ha portato ad “Io c’è” con Edoardo Leo e Giuseppe Battiston.

Per me è stata una sorpresa perché noi siamo arrivati a Venezia con questo brutto anatroccolo, piccolo, in bianco e nero, sapendo che era strano ma non ci aspettavamo nulla se non un po’ di simpatia. Invece, già dalla presentazione al Festival ci siamo accorti dell’interesse, poi c’è stato il passa parola che ha portato a delle richieste di proiezione extra perché c’erano delle file fuori, si era creata una grande curiosità. Il film è stato definito il cult del Festival di quell’anno, per noi era inaspettato e siamo rimasti felicissimi. Poi grazie al successo, a Piera Detassis che definì “Orecchie” il film più bello del Festival, ho potuto realizzare un film che in un altro momento non avrei potuto fare sia per il cast che per la storia, perché il film su uno che s’inventa una religione per non pagare le tasse è piuttosto particolare. Quindi mi ha permesso di continuare un linguaggio all’interno della commedia, facendo anche qualcosa di diverso e utilizzando dei temi non proprio tipici del genere.

Ho trovato il film molto ironico, surreale, quasi kafkiano rispetto al linguaggio e alle scene. Quali sono state le tue influenze a riguardo, sia per la scrittura che per la messa in scena? Ad esempio so che Buster Keaton è stato fondamentale.

Innanzitutto credo che la più grande ispirazione sia stata la vita. Il film non lo trovo surreale, kafkiano ma credo che la vita sia a uso modo surreale, kafkiana. Molte volte mi è stato detto, soprattutto da dottori:” Mi sembrava di essere dentro Orecchie”, però è nata prima la vita e poi il film. Spesso le situazioni che viviamo sembrano tragicomiche o addirittura nello spirito di Kafka, quindi per me il film è assolutamente reale, è il mondo che ci circonda ad essere surreale. A volte viene da chiedersi se davvero stiamo andando in questa situazione? se veramente stiamo tutti impazzendo? Tutto ciò è racchiuso nel dialogo che ha il protagonista (Daniele Parisi) con la signora Marinetti (Milena Vukotic) sulla terrazza. Il film è di quattro anni fa ma quella percezione lì la proviamo sempre di più. Quindi dal punto di vista cinematografico sono stato influenzato da un sacco di cose che mi fanno ridere e che provengono da mondi diversi, di sicuro Buster Keaton ha avuto un ruolo importante, ma anche i Simpson, Marco Ferreri, “Frances Ha” di Noah Baumbach, Aki Kaurismäki, quindi cose molto lontane tra di loro ma il cui tratto comune è quello di avere una comicità non comune e con dei momenti su cui non sai se ridere o piangere, quindi il tragicomico. Sicuramente sulla messa in scena volevo che fosse un film sulle origini del cinema, ridotto all’osso. Non volevo utilizzare nessun trucco cinematografico ma piuttosto dovevo scomparire e lasciar spazio ai volti. Volevo anche godermi Daniele Parisi che sembra una attore da cinema muto e infatti i primi piani su di lui lo dimostrano.

Ho notato una forte importanza ai luoghi, ma non per mostrarne i dettagli nascosti ma per dare una forma di stasi, dando una caratterizzazione forte ai monumenti che sembrano guardare il protagonista, soprattutto la chiesa. Poi la scena col prete, interpretato da Rocco Papaleo, riesce a toccare delle corde sottili perché è un dialogo estremamente intimo e che nasce da un errore e arriva ad essere una forte riflessione sull’esistenza.

Orecchie” è un film che nella sua semplicità tocca dei temi estremamente alti. Ci sono delle riflessioni così angoscianti che per me l’unica soluzione è riderne. Il grande insegnamento della commedia all’italiana è che davanti al caos l’unico gesto di rivalsa è quello di provare a riderne. Sul film aleggia la malattia, Dio, la morte, l’amore eterno, tutte domande/ dubbi ansiogeni che caratterizzano le vite di ognuno di noi e a cui l’unica soluzione è trovarne una chiave ironica. In una storia di questo genere ovviamente la spiritualità stava nel trovare un prete non convenzionale ma piuttosto un uomo che conoscesse il concetto o il bisogno di credere, che poi è un concetto che mi son portato da Nietzsche e questo mi sembrava fondamentale. Non m’interessava un prete che parlava per frasi fatte, cercavo qualcuno che cinicamente conoscesse l’importanza del suo lavoro e che quindi, davanti a una macchia di muffa capisce che bisognava dire:” Si, è la madonna” e benedire, perché così ha regalato una vita migliore. Quel dialogo è stato ciò che mi ha portato a pensare ad “Io c’è”, perché è un film che racconta il bisogno di credere dell’essere umano. Il bisogno di credere è una cosa che riguarda anche noi spettatori, perché ognuno sa che quel che sta guardando è soltanto un film, qualcosa di finto ma ha bisogno di credere, per la durata dell’opera, che sia tutto vero e che anche un muro di cartapesta sia reale. Le storie, seppur finte, dopo migliaia di anni continuano ad essere l’unica medicina dell’essere umano di fronte al mondo.

Credo che questo sia uno dei pochi film italiani degli ultimi anni che s’interroga nel profondo sul senso della vita, sul religioso, sulla mancanza/morte di Dio. Insomma, è un film che si domanda: ”Chi siamo?”

Si. Non è un caso il fatto che per tutto il film viene chiesto al protagonista se crede in Dio, se crede nei miracoli, se legge la Bibbia, perché è un uomo che si pone delle domande. Poi lì c’è un discorso aperto su una presunta superiorità culturale, intellettuale del protagonista rispetto agli altri che è inversamente proporzionale alla sua soddisfazione e al suo grado di felicità. Poi tendo sempre a non chiudere con un’unica interpretazione perché sono io il primo a cercare finali che non siano univoci, sempre. Mi piacciono i film su cui bisogna lavorarci un po’, quelli che ti porti appresso anche quando vai a cena una volta uscito dalla sala, quando si poteva.

Chiudiamo con una domanda banale alla vecchia maniera, cosa ti aspetti dal futuro?

Di andare a cena fuori, si spera.

Secondo lei c’è ancora speranza per il mondo?” così si apre la seconda opera di Alessandro Aronadio, “Orecchie”, presentata al Festival di Venezia nel 2016 dove ha riscontrato enorme successo tra la critica. A questa domanda da parte di due suore anziane, il protagonista, svegliato dal suono del campanello accanto alla porta dell’appartamento, risponde soltanto con un:” No.” Il film racconta le vicende di un uomo, un supplente di filosofia, che si sveglia con uno strano fischio alle orecchie e non appena alzato, trova un biglietto sul frigorifero, lasciato da Alice la sua fidanzata, che lo informa della morte di un suo amico Luigi e gli lascia l’indirizzo della chiesa dove in serata si svolgerà il funerale. Per tutto l’arco della giornata, l’uomo tenterà di risolvere il problema uditivo andando anche in ospedale, e di capire chi sia questo defunto amico di cui sembra non ricordare nulla. Inoltre, grazie ad una bizzarra chiacchierata con le suore, comincia a venirgli un dubbio riguardo Alice e la loro situazione sentimentale. Da lì in avanti, il protagonista farà un viaggio all’interno di una Roma caotica, abitata da personaggi assurdi e in cui, tra gli antichi e rigorosi monumenti e i palazzi colorati dalla street art, l’unica porta che conduca ad una strana, forse illusoria, felicità è la follia. Grazie alla sua anima tragicomica, “Orecchie” riesce a pieno nell’intenzione di ridere sulla tragicità della vita, criticando con un amaro sorriso sulle labbra la grande bocca che sembra non smettere mai di blaterare, la nostra società. Una grande critica all’italietta italiota che oggigiorno, accanto ad un pettegolezzo giornalistico ci mette l’angolo (pseudo) filosofico, tanto per avere la coscienza apposto. La regia, grazie all’utilizzo del bianco e nero (per altro ben utilizzato) e agli strambi personaggi che ruotano per svariati motivi attorno al protagonista, dà un tocco quasi visionario, con dei tratti di comicità kafkiana che rende determinate scene, in particolare quelle dell’ospedale, quasi surreali, sognanti. Daniele Parisi si dimostra un attore in grado di far ridere con semplicità, grazie anche al proprio volto che lo rende assurdo nel realismo metropolitano. Non a caso il regista si è ispirato al cinema di Buster Keaton, il che è evidente da determinate inquadrature e nell’utilizzo di primi piani che rendono Daniele Parisi una figura da cinema muto. Interessanti sono anche le altre interpretazioni, soprattutto quelle di Ivan Franek, Massimo Wertmuller e Niccolò Senni. Bisogna però spendere due parole per il personaggio più emblematico della pellicola, un prete curioso, interpretato da Rocco Papaleo, che per errore convoca il protagonista al funerale di questo fantomatico Luigi. Lo stesso Aronadio ha precisato che l’idea era quella di lavorare su un prete non convenzionale, piuttosto su qualcuno che nonostante i propri dubbi sull’esistenza e sul senso delle cose, aiuta il prossimo raccontando una storia che, seppur misteriosa e non del tutto accertata, resta una sana medicina per l’uomo. Alla fine, grazie a quest’incontro, il protagonista riuscirà a trovare un modo per essere felice in un mondo assurdo, per riuscire a vivere in un’esistenza fugace. Proprio lì, in quella chiesa che sembra pronta per traslocare, utilizzando la bara di Luigi celebra il suo stesso funerale, o meglio, la morte dell’io precedente che si appresta a risorgere con nuovi occhi, magari meno inquieti. Dopotutto è un rito che molti protagonisti hanno affrontano nella propria storia, dover lasciare il proprio Pinocchio nel buio della memoria, lasciando spazio all’avvenire delle cose e maturando quel coraggio che serve per accettare la follia del mondo. Diceva Mastroianni in “8 e ½” del maestro (Pinocchio) Fellini: “è una festa la vita, viviamola insieme.

Insomma, “Orecchie”, prodotto da Costanza Coldagelli per Matrioska, in collaborazione con Roma Lazio Film Commission, Frame by Frame, Rec e Timeline, in questo momento disponibile su Prime Video, si è rivelato un film interessante che merita di essere visto.