Il simbolo del neo-realismo italiano fra aneddoti e grandi incontri
Icona assoluta degli anni ’70-’80, impareggiabile interprete del teatro italiano, cresciuto sul palcoscenico con Giorgio Strehler, ammesso all’Olimpo con Il giardino dei Finzi-Contini di Vittorio De Sica, Lino Capolicchio ha mostrato ogni sfumatura dell’essere umano, capace di attirare l’attenzione d’ogni tipo di regista: da Lizzani ai Taviani a Dino Risi.
Maestro, partendo dagli esordi, hai avuto la fortuna di passare un pomeriggio a casa del Cristo novecentesco, il poeta corsaro Pier Paolo Pasolini.
Avevo fatto al Teatro Valle di Roma un recital di poesie, tra cui Il pianto della scavatrice, una poesia molto lunga, che dura una ventina di minuti. Un critico, amico di Pasolini, venne nel mio camerino per farmi i complimenti e disse: “Ne devo parlare a Pier Paolo, di questo recital”. Pasolini mi fissò un appuntamento a casa sua all’EUR e passai un pomeriggio intero con lui. Si comportava come un professore di università, anche bacchettandomi, non gli piaceva il fatto che avessi i capelli molto lunghi che mi coprivano la fronte. Mi disse: “Lei ha una fronte intelligente, perché si vuole omologare alla massa? Lei è un’artista e deve differenziarsi.” Pasolini mi diede una lezione estetica e morale: quando gli dissi che ero un grande amante della pittura, lui rispose: “A Casarsa, nel mio paese, c’è un tratturo che viene calpestato da millenni dai contadini ed io di fronte a quel tratturo mi emoziono perché è come un quadro di Piero Della Francesca.” Una lezione meravigliosa. Poi, quando fummo sulla porta, alle sette di sera, mi disse: “Capolicchio, lei ha un viso bellissimo, ma il suo viso esprime tutta la decadenza della grande borghesia europea del novecento.”
Ci parli della tua amicizia con Carmelo Bene?
«Guarda, era una personalità forte. Mi ha fatto capire cosa significhi avere una grande personalità. Mi diceva: “Che cazzo ci stai a fare in questo paese, tu sei oltre. Prendi un vascello e vai, allontanati sulle onde e veleggia, non startene in un paese che non ti capisce e non ti potrà mai capire.”
La tua vita è stata piena d’incontri, ma credo il più folgorante sia stato con Orson Wells, no?
Sicuramente. Quando l’ho incontrato ho visto Hollywood che si presentava davanti a me, allora un ragazzino di ventidue anni. Ma la cosa più straordinaria è che mi ha trattato come se mi conoscesse da tempo. Quando gli ho confidato il mio amore per la musica operistica, mi ha rivelato che sua madre era una concertista e da piccolo lo portava all’Opera; le prime parole italiane le ha conosciute grazie alla lirica. Infine mi ha raccontato che il giorno del suo nono compleanno, mentre sua madre era gravemente malata, il padre gli disse di salire in camera, dove era atteso. Sulla torta c’erano nove candeline e sua madre lo abbracciò fortissimo, come non aveva mai fatto prima e gli disse ”Orson, vorrei che la tua vita fosse leggera come le ali di una farfalla. Adesso vai e spegni le candeline.” Spense le candeline, la stanza finì al buio e in quel buio sua madre morì. Sembra la sceneggiatura di un suo film…
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