Ricky Tognazzi: “Raccomandato? Forse qualcuno l’avrà anche pensato”

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Figlio dell’indimenticabile Ugo, Ricky è nato e cresciuto tra set e ciak. Oggi, a 65 anni, dichiara: “Il premio più grande che potrei avere è quello di continuare a lavorare con amore”

Una carriera lunga una vita quella di Ricky Tognazzi: l’attore e regista, 65 anni, ha scoperto sin dai suoi primissimi anni la magia del cinema, tra set e, soprattutto, backstage. E sogna, ancora oggi, forse anche più di prima, grandi progetti e grandi emozioni. Figlio dell’indimenticabile Ugo, una delle colonne italiane della commedia italiana sarà ricordato, dal 21 al 23 agosto, a Torvaianica, a 30 anni dalla scomparsa. Una celebrazione che vuole essere un tributo al grande artista e il principio di una sinergia tra la famiglia Tognazzi e il Comune di Pomezia, tra passato e futuro.

Ricky Tognazzi, oggi sposato con Simona Izzo, ha iniziato ad amare il cinema calcando i red carpet e i palcoscenici del padre. Per poi arrivare, con pazienza e studio, a conquistare i suoi. Sempre con tanta e devota passione. Quindi non dategli del “raccomandato”, anche se qualcuno all’inizio l’avrà anche pensato. “Sai, in questo mestiere la raccomandazione regge poco”, mi spiega, “o si ha qualcosa in mano, o il bluff si scopre presto.

I ricordi più belli legati a tuo padre.

Da piccolo ricordo le visite ai set: i film di mio padre sono come album di fotografie, strettamente legati all’affettività e al rapporto che ho avuto con lui. E poi le vacanze estive, dedicate totalmente a mio padre, quasi sempre esclusive. Lui con me riusciva sempre a ritagliare lo spazio dovuto. L’ho sempre definito un “padre di salvataggio”: non c’era sempre, ma quando c’era bisogno, bastava allungare la mano e lo trovavi pronto.

Qual è stato il primo set cinematografico in cui sei stato ospite?

Ricordo molto bene quello de Il federale, 1961: ho visto tante scene di guerra e di bombardamenti che mi hanno anche profondamente impressionato. Mio padre era molto preoccupato per questo. Come attore, invece, anche se per me era tutto un gioco:, ricordo Ro.Go.Pa.G. (ndr, un episodio del film Il pollo ruspante) e I mostri (ndr, entrambi nel 1963), in cui facevo la parte di suo figlio anche nella finzione.

La tua carriera li avrà sicuramente smentiti, ma è possibile che nessuno ti abbia mai dato del raccomandato?

(ndr, ride) No, non è avvenuto. E’ chiaro che maliziosamente è il primo pensiero che può venire in mente, anche perché per un debutto in un qualsiasi campo professionale è sempre necessaria qualche presentazione.  Potrebbero anche averlo detto, ma semmai alle spalle. Sai, in questo mestiere la raccomandazione regge poco: o si ha qualcosa in mano, o il bluff si scopre presto.

Hai anche collaborato con Ettore Scola. Com’è nato il vostro rapporto?

Sul set lo chiamavano anche “Scuola”, perché aveva sempre quest’aria da maestro, come se volesse sempre indottrinare. Per me, invece, era il “preside”, in quanto lo consideravo la massima autorità nel campo. Ettore ha conosciuto me e mio padre, con cui aveva già lavorato. Poi mi propose un ruolo per “La famiglia”. In quell’occasione mi chiese, durante il doppiaggio, cosa volessi fare da grande. “L’attore, il regista… Vedo che ti dai molto da fare”, mi disse. Gli risposi che per quel ruolo ero stato chiamato da loro, ma che in realtù desideravo fare il regista. Dopo qualche mese mi lasciò un messaggio in segreteria telefonica per un film. Pensavo volesse propormi un ruolo, invece mi propose la regia di un episodio della serie televisiva Piazza Navona. Mi diede anche l’opportunità di scegliere l’episodio, e scelsi la storia di Fernanda. Fu una straordinaria opportunità. In seguito arrivò anche Piccoli equivoci, anche questo film legato a Scola.

Il film a cui tieni di più.

D’impulso ti direi La scorta. Ma è una domanda difficile: “Ogni scarrafone è bello a mamma soja”. Ogni film è una parte di te, ci impieghi tempo ed energie. Voglio sicuramente un bene dell’anima a Piccoli equivoci. Ma ce ne sono altri, e tanti altri progetti nati in collaborazione con Simona (ndr, Izzo), che consideriamo tutte nostre piccole creature.

Hai già ricevuto quattro David di Donatello e un Ciak d’oro, oltre che un premio al Festival internazionale del cinema di Berlino. Quale premio vorresti ancora ricevere e per cosa?

Io sono figlio del grande cinema italiano: in quei tempi scegliere un bel progetto era più semplice di oggi. In questi anni si fanno tanti film, ma allora si faceva il cinema. Il premio più grande che potrei avere è quello di avere l’opportunità di fare altro. E, soprattutto, di continuare ad amare ciò che faccio.

Da quattro anni non lavori davanti alle camere: un caso o una scelta?

E’ un mix di cose: c’è da dire che le poche volte che sono stato chiamato in questi anni non ho ritenuto opportuno dire di sì. Ma c’è da aggiungere anche che, comunque, sono stato molto molto impegnato. Ed era impossibile conciliare il lavoro da regista e da attore. A stento è difficile trovare tempo e spazio per gli affetti: i film da regista ti assorbono h 24.