Se in arte vince la censura del teologicamente corretto

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Giovanni Gasparro. Martirio di San Simonino da Trento (Simone Unverdorben), per omicidio rituale ebraico (particolare). Dittico centinato, olio su tela, 225 x 150 cm. 2019-2020. Collezione privata. Image copyright © Archivio Luciano e Marco Pedicin. Fonte Facebook

Statue divelte e imbrattate in nome della presunta verità: la longa manus distruttrice della lotta contro i simboli dello schiavismo, del sessismo, del razzismo e di tutti gli -ismi che fanno rima con la visione totalitaria del polticamente corretto, dopo i vari Montanelli e Voltaire è arrivata a toccare pure Gesù: non siamo ancora arrivati alla volontà di abbattere i crocifissi, ma intanto si sta facendo largo la certezza che no, l’iconografia tradizionale del Cristo bianco, biondo/castano e con gli occhi azzurri è sinonimo di suprematismo bianco e pertanto va sostituita con un’immagine più “Inclusiva e aderente alla realtà, cioè l’immagine di un Cristo dal volto olivastro e i capelli neri corti e crespi e la barba. Eppure, come leggerete qui sotto, già da prima che si diffondesse l’iconoclastia al motto Black Lives Matter i censori si davano da fare…L’articolo che segue è stato pubblicato il 3 aprile 2020. (Redazione)

In questi giorni l’inquisizione del politicamente corretto si è scagliata contro un pittore di fama internazionale, il maestro Giovanni Gasparro, definito da Vittorio Sgarbi come l’ultimo della scuola del “caravaggismo”. L’artista si è reso “colpevole” di raffigurare l’eccidio di San Simonino da Trento, brutalmente martirizzato nel 1475, durante il periodo pasquale, dalla comunità ebraica locale. Almeno questo è quello che le fonti processuali ufficialmente ci dicono. Prima del 1965 la Chiesa Cattolica ricordava ogni anno, il 24 marzo appunto, “la passione di san Simonino, fanciullo trucidato crudelmente dai Giudei, autore di molti miracoli”. Una ricorrenza abrogata l’indomani della conclusione ai lavori del Concilio Vaticano II da Papa Paolo VI, in piena conformità con i principi ecumenici del nuovo percorso voluto e intrapreso dalla Chiesa romana. 

Gianluca Pietrosante

L’oggetto del presente articolo non sarà rimarcare le differenze teologiche, dottrinali e storiche tra la chiesa pre e post conciliare, bensì sottolineare ancora una volta, al di là della diatriba storiografica che verte sulla questione delle fonti (che comunque accenneremo) la violenza mediatica e giornalistica che ha dovuto subire – e sta subendo – il giovane pittore pugliese, per aver trattato temi divenuti scottanti quanto controcorrente. Il nome del giovane pittore pugliese è arrivato persino sulla scrivania del Cardinale Segretario di Stato, Pietro Parolin

Come si evince dall’opera dell’autore -rintracciabile on line – si tratta di un quadro di pregevole fattura sia dal punto di vista del significato iconologico sia per quanto concerne quello iconografico, raffigurante un determinato avvenimento che, piaccia o meno, ha determinato una ricorrenza annuale per tutta la comunità cristiana –specialmente quella trentina- per quasi cinquecento anni. 

Gli articoli giornalistici che si sono susseguiti una volta resa pubblica l’opera, non hanno fatto altro che sminuire e denigrare a priori, ovvero senza cognizione di causa, l’azione del Gasparro, così come la maggior parte dei commenti riportati sul suo profilo Facebook, che sono di una violenza inaudita quanto irrazionale. Basta scorrerli uno ad uno e si può evincere un becero tifo da stadio tra chi difende l’opera (pochi) e chi la attacca (molti), formando così un “salotto virtuale” somigliante ad una e vera e propria cloaca.  Nessuno, tra le migliaia di commenti, ha pensato di iniziare un dibattito serio, pacato e ragionevole che potesse giungere, se non ad una verità assoluta, ad un compromesso, nel pieno rispetto delle regole democratiche. Certo, non si può pretendere che tutte le persone abbiano una preparazione intellettuale e culturale tale da poter affrontare un dibattito perlomeno razionale: sarebbe presuntuoso il solo pensarlo. Ma la cosa che sorprende –anche con un certo disgusto- è che i “cani da guardia” delle nuove “verità” ideologiche, divenute ormai assolute, sono quei paladini della filosofia moderna e post moderna, che ha fatto sì che si annullasse ogni tipo di pensiero razionale e realistico. E la maggior parte di queste persone risultano essere “studiate”, almeno sulla carta. Perché si tratta di persone che, vantandosi di essere intelligenti solo perché professanti il pensiero progressista (senza rendersi conto che oggi sono proprio loro i veri conformisti), argomentano su qualsiasi tipo di questione storiografica, religiosa, politica e sociale con beceri concetti e slogan preconfezionati.  Di conseguenza “l’ars” della dialettica è a dir poco scardinata e quel poco di dialogo persistente nel presente millennio è pressoché scevro da ogni contenuto: questa crisi culturale e intellettuale riguarda ormai tutti i campi della vita pubblica. 

Questo perché oggi non si riesce a superare lo scetticismo con la dottrina del concetto, concetto che come ci insegnano gli antichi Greci è una conoscenza astratta (dalle immagini sensibili) e universale (ovvero riferibile a molti soggetti) fornendoci così sia opinioni sia certezze. Queste caratteristiche concettuali sono state le basi per lo sviluppo di tutta la civiltà occidentale fino al nascere della filosofia di stampo razionalistico e soggettivistico, antitetico al primo modello indicato. Da qui un lungo processo che ci ha portato allo stato attuale, ovvero a far sì che molti siano divenuti “assuefatti al conformismo”, come afferma il filosofo contemporaneo Luigi Iannone. Tale attitudine è culminata con la vittoria delle potenze liberal-democratiche dopo la Seconda Guerra Mondiale, all’insegna di un becero intellettualismo che non va al di là del politicamente corretto: tutto ciò che non è allineato ai diktat del binario del nuovo “intellettualismo” è etichettato come bigottismo, razzismo, fascismo e chi ne ha più ne metta. 

Ma questi assuefatti conformisti negli ultimi anni si sono spinti oltre, forse capendo che certe accuse sbraitate, con il capovolgimento e in certi casi il pieno smantellamento di certi significati  (l’amor patrio è divenuto appunto fascista, l’essere religioso è ormai segno di bigottismo medioevale, difendere la propria identità è razzismo, e via dicendo), corrano ormai il rischio di passare in maniera stomachevole come obsolete, quasi demodé: ed ecco sbucare fuori dal  vocabolario “chic” di stampo anglosassone (la lingua italiana è ormai fuori tempo) il termine “fake news”. Il lettore non voglia intendere che il presente scritto sia a difesa delle false notizie: lo scrittore del presente è uno storico e un giornalista, ed è proprio per rispetto di queste professioni che tiene più che mai alla divulgazione della verità di cose realmente avvenute. La critica semmai verte sull’uso dapprima strumentale e poi ideologico che ha assunto questo termine.

Una crociata, questa contro le false notizie, che vide uno dei suoi massimi campioni in Matteo Renzi, che nel novembre del 2017 al congresso della Leopolda esordì proprio con questa tematica. Marcello Veneziani la definì “La falsa guerra alle bufale”. In sostanza tutto ciò che è argomentato e discusso dagli oppositori dei succitati conformisti è fake news. 

C’è da fare una premessa a riguardo: da che mondo e mondo, ahinoi, in ogni epoca v’è sempre stato qualcuno che ha costruito una verità “ufficiale” secondo i propri obiettivi e interessi. E la Storia è stata oggetto di mercificazione da parte della politica di turno spesso e volentieri, soprattutto dopo la rivoluzione ideologica del 1789. 

Questo principio vale soprattutto per coloro che hanno da sempre rifiutato qualsiasi tipo di verità assoluta e oggettiva, dato che è stato – ed è tuttora – così. Proprio costoro sono gli stessi che gridano allo scandalo delle famigerate “Fake News” di ieri e di oggi, ricercando altresì o una verità che permetta di validare la loro ideologia, o il tentativo di screditare il pensiero opposto: tutto ciò avviene in piena conformità con il pensiero e l’attitudine soggettivista e relativista che ha ridotto al nulla la dialettica. Un esempio pratico? Ancora oggi, dopo settantacinque anni dalla fine del Secondo conflitto mondiale, non si può nemmeno tentare un dialogo oggettivo, ponderato e fruttuoso che possa giungere ad una verità storica per quanto riguarda i molti lati oscuri della Resistenza. Un dialogo inutilmente tentato da parte di uno dei massimi storici del Novecento, vale a dire Renzo de Felice. Perché lo sforzo per un paese civile deve essere quello di emancipare la storia dall’ideologia, di scindere le ragioni della verità storica dalle esigenze della ragion politica o della faziosità. E così non avviene neanche quando si grida alla “fake news”.

Ritorniamo ora, come promesso, all’oggetto iniziale, accusato proprio di raffigurare una “fake news” storica secondo l’articolo apparso sul “Sir”. Ci affidiamo così allo storico italo – israeliano Ariel Toaff e al suo saggio Pasque di sangue: Ebrei d’Europa e omicidi rituali. In questa ricerca Toaff conferma da un lato la mancanza di prove schiaccianti circa le accuse alla locale comunità ebraica per l’omicidio del piccolo Simonino, seppur tutti gli indizi portassero ad essa; dall’altro però afferma che si possono rinvenire tracce, nell’ambito di alcune sette fanatiche ebraiche, della pratica di rituali magici –con chiare finalità anticristiane- che potrebbero aver comportato l’uso del sangue. Lo stesso storico riporta alla luce altri martiri infanti con prove giudiziarie più documentate, conservate tutt’oggi negli Archivi di Stato, come accadde nella zona del trentino, nel veronese o nel trevigiano, dove gli ebrei imputati ammisero i loro efferati delitti (come del resto avvenne anche a Trento: le stesse testimonianze rese sotto tortura dagli imputati utilizzano termini ebraici specifici, trascritti come suonavano dagli inquisitori, che non li capivano: segno, per il Toaff, dell’improbabilità di una falsificazione dei verbali). Anche il ricercatore Matteo Melchiorre nel suo Ad un cenno del suo dito, fra Bernardino da Feltre, in merito all’eccidio dell’infante riporta che gli ebrei di Trento avevano preparato l’omicidio rituale di Simone, oltre che in vilipendio della fede cristiana, con lo scopo pratico di ricavarne il sangue, magico e terapeutico secondo alcune sette askenazite, per servirsene nel rituale del Seder. Abbiamo quindi, oltre alle carte processuali, le ricerche di due storici autorevoli, uno dei quali ebreo. 

Inoltre, l’opera del Gasparro non è l’unica a rappresentare l’episodio incriminato: già altri artisti si cimentarono a rappresentare l’evento. Così come l’intera arte cristiana è piena di simbolismi, messaggi e raffigurazioni di episodi che oggi appaiono “violenti”, ma mai antisemiti: l’antisemitismo, anche nella chiesa preconciliare, è sempre stato –giustamente- condannato. Persino Papa Sisto IV, pontefice durante l’infanticidio del beato Simonino, invitò il Principe Vescovo di Trento Johannes Hinderbach con una bolla a non incitare i cristiani “contra iudeos” ma a rispettare le norme processuali affinché si facesse verità (questo è documentato dal già citato Melchiorre).

E qui si ritorna alla questione principale che pone un quesito naturale: quando avverrà che la storia, l’arte, la creatività e la ricerca della Verità non siano più motivo di imbarazzo proprio per coloro che – in teoria – non credono a nessun tipo di verità assoluta e/o rivelata, ma allo stesso tempo sono i custodi e i cani da guardia di quelle verità ideologiche che hanno ormai assunto una connotazione materialmente dogmatica? Piuttosto che si godano l’arte e la creatività dei giovani pittori. Costruiamo un dibattito sano attorno ad una opera meravigliosa dal punto di vista tecnico. Altrimenti ci meritiamo le banane incollate con del nastro isolante. 

1 commento

  1. Commento semplicemente magistrale.
    Complimenti all’autore. Un atto dovuto verso l’autentica ricerca della verità storica, di ogni tempo, quand’anche sgradita ai potenti di turno.
    Grazie.

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