La vicenda della Colonna Infame si svolse a Milano, tra piazza Vetra e la Basilica di San Lorenzo, durante la pestilenza che colpì la città nel 1630.
Piazza Vetra, che prende questo nome dal corso d’acqua che l’attraversava, fu il luogo delle esecuzioni capitali dalla metà dell’anno mille fino al 1840.
Il periodo milanese che va dal 1560 al 1631 venne chiamato età Borromaica, perché caratterizzato dall’impronta data dai due cugini, entrambi Arcivescovi, Carlo e Federico Borromeo.
I Borromeo, in un periodo in cui le istituzioni locali erano inesistenti, furono figure fondamentali per l’identità civica di Milano e, nei giorni della peste, divennero il punto di riferimento della città, abbandonata dal governatore spagnolo.
La peste mise in ginocchio Milano due volte: nel 1576, quando era Arcivescono (San) Carlo Borromeo, e nel 1630, quando era Arcivescovo Federico Borromeo.
Durante le peste del 1576 San Carlo fece erigere ai crocicchi delle vie diciannove colonnine, ognuna sormontata da una croce, ai piedi delle quali veniva collocato un altare. Le persone in quarantena potevano così assistere dalle finestre alle funzioni religiose.
Ognuna delle croci era affidata ad una compagnia di persone detta Compagnia della Croce, che aveva il compito di organizzare orazioni pubbliche durante il giorno.
Anche all’estremità delle Colonne di San Lorenzo furono erette due croci, da un lato quella di Sant’Eustorgio, dall’altro lato –verso le mura- quella di San Venerio.
Durante la peste del 1630, la peste dei Promessi Sposi, per cercare di dare una spiegazione all’inarrestabile diffondersi dell’epidemia, la diceria popolare addossò la colpa a presunti “untori”: il commissario di sanità Guglielmo Piazza ed il barbiere Gian Giacomo Mora.
Gian Giacomo Mora aveva iniziato a produrre un unguento medicamentoso, con il consenso dei Commissari di Sanità.
Molti lo comperarono tra cui Guglielmo Piazza che, visto in atteggiamento sospetto da un testimone, fu arrestato con l’accusa di essere un “untore”.
Sotto tortura confessò e disse di aver ricevuto “l’unguento pestifero” dal Mora.
Venne fatta un’ispezione immediata a casa di quest’ultimo e furono trovate polveri e lozioni ritenute sospette ed un recipiente nel retrobottega che conteneva acqua e una sostanza sul fondo, che ritennero fosse “smoiazzo di morto”.
Mora fu arrestato il 26 giugno del 1630, con l’accusa di aver prodotto un unguento non curativo ma malefico, poi utilizzato da Guglielmo Piazza per diffondere il contagio, in cambio di soldi.
Mora negò ogni accusa ma poi, incalzato dai giudici e sottoposto a tortura finì per confessare. In Piazza Vetra, davanti ad una folla inferocita, entrambi furono torturati, sottoposti al supplizio della ruota e dopo un’agonia di sei ore gli fu tagliata la gola. I corpi vennero bruciati.
L’abitazione di Gian Giacomo Mora venne rasa al suolo e sul luogo venne eretta una colonna, detta “infame”, con una lapide con su scritto, in latino seicentesco, la condanna e le torture inflitte.
La colonna fu fatta togliere nel 1778 da Pietro Verri -fondatore della scuola illuministica milanese-, dopo la pubblicazione delle “Osservazioni sulla tortura”.
Nel 1823 Alessandro Manzoni, con le notizie prese dal De peste Mediolani quae fuit di Giuseppe Ripamonti -cronista della peste del 1630-, scriverà la “Storia della Colonna Infame”.
L’intenzione del Manzoni era di inserire il racconto all’interno dei Promessi Sposi, ma era decisamente troppo lungo. Lo pubblicherà nel 1840, come appendice della seconda edizione del romanzo.
La vicenda della Colonna Infame sottolinea che le convinzioni, spesso infondate, arrivano a calpestare ogni forma di buon senso e di pietà umana.
Oggi come allora.
“Quell’Ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, non è una scusa ma una colpa” (Alessandro Manzoni, “Storia della Colonna Infame)
Dedicato ad Enzo Tortora,
insieme al quale è sepolta una copia della Storia della Colonna Infame.
Ringrazio Emanuele Beluffi, “untore” di curiosità e sapere.