Jacopo Venturiero: “Suburra imprinting di libertà”

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Jacopo Venturiero:
SUBURRA

Già dai primi minuti Jacopo Venturiero trasmette un’innata passione per il lavoro, che coltiva con dedizione sin da piccolo. Classe 1985, dal 22 febbraio è tra le new entry della seconda stagione di Suburra. La serie.

Cosa puoi anticiparci del tuo ruolo?

Interpreto Adriano, uno speaker radiofonico della radio locale della Roma e, come avviene per tante radio sportive, gli argomenti non si fermano soltanto al tifo calcistico, ma spaziano, sfociando inevitabilmente anche nella sfera politica. Questa radio ha molta più influenza sugli ascoltatori di quanto uno possa aspettarsi da una radio locale, riuscendo a muovere le opinioni. Adriano ha un passato comune con Samurai e appartiene alla cultura della destra estrema. In tutta quest’attività, nonostante abbia una provenienza politica opposta alla sua, si interessa molto alla campagna politica di Amedeo Cinaglia. Ha degli ideali molto forti, tanto da andare al di là di destra o sinistra, poiché riscontra nel programma di Cinaglia degli elementi che gli stanno molto a cuore, a partire dalla sorte di Roma. Il mio personaggio odia tutta quella politica che negli anni ha preferito la speculazione piuttosto che la buona gestione della cosa pubblica.

Condividi la preoccupazione rispetto a Roma?

Sì, molto, perché è una città in ginocchio e da romano ne soffro tantissimo. Adriano è un personaggio molto bello, che mi ha dato la possibilità di lavorare a qualcosa di completamente opposto da ciò che sono io e non è un’opportunità che viene sempre data in tv e al cinema, anzi… La difficoltà che riscontrano tanti attori non è semplicemente nel lavorare, ma anche quella di avere la possibilità, una volta ottenuta la parte, di lavorare su un personaggio che sia distante da sé. In genere si tende a prendere volti o personalità più o meno corrispondenti a quelle del personaggio per facilitare il tutto.

Che tipo di evoluzione stilistica riscontri in Suburra?

Se tutte le serie partissero dalla base che offre Suburra saremmo tutti molto più felici. Ha un imprinting – dal linguaggio visivo alla libertà d’espressione – molto più esportabile e di fatto è Netflix la piattaforma che la ospita con una visibilità in ben 190 paesi, il che è una novità assoluta per chiunque faccia questo lavoro in Italia. In più abbiamo avuto molto più tempo per realizzare il prodotto rispetto a progetti per la tv in chiaro.

Come artista e da cittadino della capitale, cosa si potrebbe fare per Roma?

Non saprei dirlo nello specifico. Sicuramente molto è dipeso e dipende dalla politica, ma molto anche dai romani, perché c’è una mancanza spaventosa di senso civico ed etico, certo con le dovute eccezioni. Basterebbe partire dai piccoli gesti, ad esempio mi è capitato di vedere una donna che effettuava la raccolta differenziata nei bidoni per strada – e non è scontato.

Ripensando al tuo ruolo, incuriosisce il potere dato alla radio, oggi probabilmente sarebbe ricoperto dai social…

Se la serie fosse ambientata ai nostri giorni, il mio personaggio probabilmente gestirebbe un account Instagram. Nel 2008 (anno in cui si svolgono le vicende, nda) ero in tournée con Vita di Galileo e un mio collega mi suggerì di aprire un profilo Facebook quando nessuno ancora sapeva cosa fosse. Io non sono un tipo social. Mi dà fastidio vedere la vita privata degli altri privata, figuriamoci condividere la mia [lo dice con un senso di pudore, non di condanna], provo imbarazzo ma questo è un mio limite, forse sono anche troppo riservato. Sono rimasto a un’altra epoca. Certo i social media possono essere anche positivi, dipende da come si gestiscono. Sarebbe meglio che ci si fermasse alla sfera ludica, invece adesso ognuno esprime la propria opinione su tutto anche quando non si ha la minima competenza.

In Cock (regia di S. Peroni, n.d.r.), uno spettacolo a cui sei molto legato, si affronta la crisi d’identità, tanto che si arrivava a dire: «io non so chi essere». Tu sei riuscito a definire che tipo di individuo sei?

No, sono alla continua ricerca di qualcosa, credo sia una condizione caratteriale che mi porterò sempre dietro. Nonostante questo modo di essere possa creare delle sofferenze rispetto a chi è risoluto, ritengo che avere dei dubbi e porsi delle domande sia il modo migliore per continuare a fare questo lavoro.

SUBURRA

Ti sei cimentato giovanissimo anche nella regia..

La scelta di co-dirigere due spettacoli con la mia collega Marianna de Pinto (entrambi anche interpreti, n.d.r.) è avvenuta appena usciti dall’accademia. Andai in giro per proporlo ai teatri e lo prese il Brancaccino – un teatro con un proprio seguito – per ben tre settimane, adesso non accadrebbe. Avevo ventun anni e l’idealismo e lo slancio di gioventù. È stato bellissimo, ma non lo ripeterei più, oggi affiderei la regia a Silvio Peroni, che forse è l’unico in Italia in grado di dirigere gli attori in modo tale da far restituire loro un testo, un’abitudine, un modo di procedere che a noi è un po’ estraneo culturalmente parlando, ma che in Inghilterra hanno nel sangue. Loro, sia come scrittura che come preparazione attoriale, sanno riprodurre la vita in modo naturale. C’è una definizione meravigliosa di Meisner «recitare è agire realisticamente in circostanze immaginarie» ed è così. La scuola italiana antica è legata, invece, al ripetere la battuta così come la dice regista.

COSTELLAZIONI

In passato, molti imparavano sul campo, a bottega da altri grandi interpreti, che quando entravano in scena potevano non dire nulla e tu rimanevi lì a guardarli perché avevano una forza e un’energia incredibili. Oggi manca il carisma dell’attore. Per fortuna ho lavorato con tanti dei grandi tra cui Gabriele Lavia. Quando è morto Albertazzi ero in cartellone al Teatro Greco di Siracusa con Elettra nei panni di Oreste, diretto proprio da Lavia. La sera della scomparsa del maestro non ero in scena, ci alternavamo con Alcesti. Durante gli applausi Paolo Graziosi ha ricordato Albertazzi e subito dopo ha chiesto un minuto di silenzio, pregando tutti gli attori di inginocchiarsi per cui c’erano settemila spettatori in piedi e tutta la compagnia inginocchiata di fronte a un grande del teatro che se ne andava. È stato commovente, mi è sembrato un enorme gesto di rispetto.

Ci racconti un episodio off?

Il periodo maggiormente indipendente e che io amo di più è proprio il percorso con Silvio Peroni (i primi lavori insieme risalgono al 2008, nda), tuttora è off anche se non dovrebbe esserlo più.

Quali sono i prossimi progetti in cantiere e cosa vorresti realizzare per il palcoscenico?

A marzo esce un film su Netflix, The Dirt (il biopic sui Mötley Crüe, n.d.r.), dove do la voce a Douglas Booth, già doppiato in Mary Shelley – Un amore immortale. Per quanto riguarda il teatro spero di tornare a lavorare presto con Silvio Peroni. Per i ruoli adoro Čechov, desidererei interpretare Astrov  di Zio Vanja, un altro testo preferito è Tre sorelle,tra Tuzenbach eVeršininnon saprei chi scegliere.