SanteCucine: il “pan rozzo”, quel dolce dannunziano che dolce non era

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Pixabay License ph stux
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A Pescara, in via Pepe 41, al Ritrovo del Parrozzo, tra bottiglie di Aurum, statue di volti e lettere incorniciate di Gabriele D’annunzio, ho conosciuto il Parrozzo.

Questo dolce, che dolce non era, è stato pensato da Luigi D’Amico, maestro pasticcere pescarese, che nel 1919 decise di rivisitare, aggiungendo dolcezza e intuizione, il “pan rozzo” dei contadini abruzzesi, un pane semisferico di farina di granturco cotto nel forno a legna. Luigi D’Amico mantenne la forma riproducendo il giallo del granturco con quello delle uova, aggiungendo la farina di mandorle e ricoprendolo di finissimo cioccolato fondente, per imitare lo scuro delle bruciacchiature della cottura nel forno a legna.

L’antica pasticceria D’Amico si trovava a pochi passi dall’abitazione di donna Luisa D’Annunzio ed il primo illustre “assaggiatore parrozzano” fu suo figlio Gabriele che, impegnato nell’impresa di Fiume, ricevette dal maestro pasticcere il Parrozzo, accompagnato da una lettera:

Illustre Maestro questo Parrozzo – il Pan Rozzo d’Abruzzo – vi viene da me offerto con un piccolo nome legato alla vostra e mia giovinezza … ho voluto unire queste due offerte – il ricordo e … il dolce – perché conosco il valore di certi ricordi per l’anima vostra”.

La spavalderia di Fiume lasciò spazio alla nostalgia.

La sua casa natale, di cui scriveva in Notturno e in Cara cara mamma, l’epistolario alla sua “mater Mirabilis” donna Luisa. Il suo letto dove pensava poggiando il capo, mentre sedeva sull’inginocchiatoio posto vicino.

La quinta stanza “dove fui generato e concepito”.

Questo appena nato dolce aveva evocato ricordi di vita così intimi e profondi che D’Annunzio rispose a Luigi D’Amico con un sonetto:

È tante bbone ‘stu parrozze nóve / Che pare na pazzíe de San Ciatté / Chìavesse messe a ‘su gran forne tè / La terre lòavurate da lu bbove, / la terra grasse e luistre che se cóce, / chiù tonne de ‘na provole, a ‘su foche / gientile, e che duvente a poche a poche / chiù doce de qualunquea cosa ddóce. / Benedette D’Amiche e San Ciutté!
Ossia:

È tanto buono questo parrozzo nuovo / che sembra una pazzia di San Cetteo / che abbia messo in questo tuo gran forno / la terra lavorata dal bue / la terra grassa e lucente che si cuoce / più tonda di una provola su questo fuoco / gentile, e che diventa a poco a poco / Più dolce di qualunque cosa dolce. / Siano benedetti D’Amico e San Cetteo!


Luigi D’amico su precisa indicazione di D’Annunzio chiamò il dolce PARROZZO.

Il Poeta Vate, che si definì “parrozzano”, ordinava grandi quantità di Parrozzo per regalarlo agli amici e per le feste comandate.

In un solitario Natale scrisse: “È finita la vigilia. Forse a quest’ora la gente è in gozzoviglia. Io sono a digiuno da 48 ore. Vado a cercare un parrozzetto. Lo apro, lo mangio. Assaporo in esso, sotto la specie dell’amarezza, il Natale d’Infanzia”.

Oltre al poeta altri artisti contribuirono alla nascita di questo nuovo Dolce: Luigi Antonelli, commediografo e critico d’arte che scrisse la Storia del Parrozzo; Armando Cermignani, ceramista insigne che realizzò i disegni ed i colori della scatola; il Maestro Di Iorio che musicò e l’umanista Cesare De Titta che scrisse la “Canzone del Parrozzo”; Tommaso Cascella che dipinse i quadri che adornano le sale del RITROVO DEL PARROZZO.

In via Pepe 41, al “Ritrovo”, si gusta appena sfornato, accompagnato da un bicchiere di Auruum, il liquore Dannunziano per eccellenza, o dal caffè.

Per i nostalgici, come me, ci sono il Parrozzo intero e in monoporzione, il Parrozzino, con una conservazione di sette mesi.

A casa mia non manca mai.