La macchina teatrale di Giancarlo Sepe tributa Stanley Kubrick

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Foto Articolo Barry Lyndon I

Foto Articolo Barry Lyndon IDopo aver tratto Amleto all’’Hôtel du Nord di Marcel Carné, condotto i Dublinesi di Joyce all’interno della Basilica San Salvatore di Spoleto, trasferito Vertigo – La donna che visse due volte nel mito di Euridice, Giancarlo Sepe, uno dei più importanti registi teatrali d’avanguardia, consegna un portentoso Barry Lyndon alla città di Roma.

Da martedì 23 ottobre sino a domenica 4 novembre, è in scena al Teatro Argentina l’omaggio di Giancarlo Sepe al cinema di Stanley Kubrick: Barry Lyndon. Il creatore di sogni.

Il film e dunque l’opera teatrale, giungono direttamente dal romanzo Le memorie di Barry Lyndon di William Makepeace Thackeray che vede la traduzione italiana per opera dello scrittore Tommaso Giartosio, ospite del teatro Argentina, subito dopo lo spettacolo di domenica 28 ottobre.

Il Redmond Barry di Sepe, finemente interpretato dall’attore Mauro Brentel Bernardi, è un creatore di sogni, un disilluso dalla vita che riversa tutto il vuoto nel cosmo immaginifico poiché sa che l’esistenza, quella autentica, accade proprio nel sogno. La luce, il giorno, l’universo vita non giungono mai alla purezza dell’onirico, che mediante un sapiente gioco di luci, prende su di sé tutti i connotati di un meraviglioso sogno reale. Quello che accade nella fantasia di Barry è la provata forza di vivere, che fuori dalla zona onirica, perde ogni innocenza per caricarsi dell’elemento malvagio, grigio forziere dell’essere umano.

Pur essendo da sempre un accreditato lestofante, Barry in realtà è una creatura pura, vittima degli inganni della società del tempo. Vacui raggiri che determinano in maniera definitiva tutta la sua vita. Imbrogli che lo sottraggono alla possibilità di essere non solo il creatore dei sogni, ma colui che si realizza nel viverli. Una vita per scontare la delusione d’amore della cugina Nora, qui sul palco, indossata da una bravissima Federica Stefanelli.

Il ‘700 di Kubrick prende vita sul tavolato settecentesco del teatro Argentina, un posto dove l’amore si libera dal tempo, dal pregiudizio e dalla pudicizia, finanche quella di essere invocato. Il regista Sepe, seppur in tonalità differenti, non manca mai di portarlo in scena: Barry è un mutilato d’amore e il suo profondo disincanto non è altro che conseguenza di un cinismo socialmente approvato. Il malgarbo è tutto nelle vite degli altri, innesti gratuiti di empietà e disprezzo. Ogni incontro disegna il precipizio al quale Barry è destinato dall’ineluttabilità, nondimeno dall’intrigo dell’umanità tutta. Rappresentativo resta il fatto che l’amore diviene macchietta nel momento in cui non è più pertinenza di Barry. L’affaire tra Nora e il capitano John Quin (Guido Targetti) descrive il momento comico: gli attori si fanno burattini mossi dalla mancanza del sentimento, regalando un momento di puro gioco ironico.

Ma Barry torna e tenta di rinnovarsi per parlare di poesia, un’arte che fa subito seguire dal vizio del gioco, la passione per i cavalli e la spada: ma chi stabilisce il confine della poesia?

Tuttavia il duello di Barry per amore di Nora, porta con sé tutta la lirica di un uomo innamorato, e quale creatura, presa nel sussulto d’amore non finisce in un’istantanea ridicola che provoca il riso?  Di nuovo l’imbroglio è custodia di altri: animi scortesi nell’innocenza di Redmond che, ghermito al laccio dal nastro di seta della cugina, ne resta ingabbiato per sempre.

Dunque lo Zeiss del cineasta diviene nel regista italiano lo scandaglio dell’animo umano, il mezzo per scendere in profondità, lasciando comunque in superficie ogni giudizio morale. Si tratta di un allestimento, che alla stessa maniera di Kubrick, riesce nell’operazione di inebriare attraverso l’aspetto visivo, chiamando in scena tutte le probabili attinenze estetiche e riuscendo a coinvolgere senza far leva sulla commozione, ma solo attraverso un’epifania dell’estetica teatrale e cinematografica.

Giancarlo Sepe è grande connaisseur del cinema a tal punto da riuscire a teatralizzarlo e ampiamente sintetizzarlo anche mediante le estensioni musicali di Händel, Bach, Paisiello, Schubert, i contemporanei irlandesi Chieftians e gli statunitensi Rachel’s.

La sua macchina teatrale è una magica pozione: donne bellissime, disegnate da corpi scolpiti nella vera palestra dell’attore; uomini descritti da modulazioni vocali che giungono oltre la quarta; la presenza di un monumentale chevalier de Balibari nella voce e nell’espressione del grande Pino Tufillaro; l’ingannevole imperturbabilità di lady Lyndon (Gisella Cesari); dunque creature danzanti, abili spadaccini, intensi cantori. Tale il sapore del teatro La Comunità di Roma, che pur battendo l’antico tavolato del teatro Argentina, conserva il profumo inconfondibile della scena propria nel cuore di Trastevere.

La commozione giunge in linea retta dalla bellezza, ampliamento dello sguardo e del suo stupore. Si va a teatro per contemplare l’opera di Giancarlo Sepe, l’ennesimo sbalordimento in attesa del prossimo.