Se non siamo più liberi di manifestare il nostro pensiero

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L’espressione “politicamente corretto”, ci ricorda la Treccani, “è un calco dalla locuzione angloamericana politically correct, con cui ci si riferiva in origine al movimento politico statunitense che rivendicava il riconoscimento delle minoranze etniche, di genere ecc. anche attraverso un uso più rispettoso del linguaggio”.

Un’accezione decisamente positiva a prima vista, che non tiene conto di quanti (da Robert Huges a Tom Wolfe fino a Jonathan Friedman) hanno puntato il dito sul rovescio di quello che non è più ormai da tempo solo un vezzo di qualche intellettuale liberal, ma è assurto a problema più che concreto, di politica e di vita, nelle avanzate società occidentali.

Il politicamente corretto, infatti, assottiglia sempre più i nostri spazi di libertà non solo, come avverte il filosofo liberale Corrado Ocone, con la forza di un nuovo conformismo culturale che non tollera chi la pensa diversamente e sa essere decisamente intollerante verso chi non sta ai suoi dettati, ma anche con la forza delle leggi che impongono un pensiero dominante attraverso le norme anziché attraverso la forza della ragione.

Provvedimenti quali le leggi contro l’omofobia (il cosiddetto ddL Scalfarotto),  il negazionismo (aggravante, aggiunta alla Legge Mancino, rispetto ai reati di discriminazione razziale e di stampo xenofobo), o la proposta dell’onorevole Fiano (che mirava ad ampliare ed estendere la norma già esistente del codice penale relativa al «reato di propaganda fascista»), hanno in comune il voler punire i “reati di opinione”.

Siamo quindi a un “politicamente corretto” 2.0 che si fa coercizione leguleia. Figlio primogenito di una sinistra liberal che, in Occidente, avendo perso il consenso popolare e non riuscendo più a mantenere l’egemonia culturale, tende a perseguire penalmente tutte le opinioni che contrastano con la sua visione del mondo.

Da questa prospettiva siamo di fronte a provvedimenti che sanno più di strumenti del totalitarismo e che della democrazia e che comportano un rischio concreto.

A repentaglio c’è infatti il meccanismo alla base della convivenza civile e democratica, che si fonda sulla libera discussione, che non può valere solo per le idee popolari o inoffensive ma deve valere anche per quelle che possono offendere, scioccare o disturbare.

Allora, in questa XVII Legislatura, proprio dalla Costituzione bisognerebbe ripartire, avendo ben presente l’articolo 21 della nostra Carta: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione […]», abrogando ed evitando di riproporre tutte quelle le leggi che comprimono o penalizzano le opinioni, anche nel caso di quelle estreme.