Cosa significò essere wagneriani nell’Italia del melodramma? Ne seppe qualcosa Antonio Smareglia (1854-1929), tutt’oggi un Carneade della musica, ma che la monografia di Paolo Petronio, Le opere di Antonio Smareglia (Zecchini, pagg. 348, euro 29) strappa da un oblio immeritato. Istriano, visse una condizione non facile nell’Italia operistica a cavaliere tra ’800 e ’900: ebbe formazione ‘tedesca’ a Vienna, convintamente wagneriano, lodato da Brahms e Richard Strauss, amico di Joyce.
L’autore ripercorre la biografia del compositore istriano definita «il calvario di un ribelle»: il suo wagnerismo gli costò l’inimicizia dell’establishment operistico, venne additato come menagramo (accusa dalla quale non riuscì mai a liberarsi) e, in più, «non aveva peli sulla lingua».
Pregio del volume è gettare luce sulle sue opere, meticolosamente descritte ed elencate (Preziosa, Bianca da Cervia, Re Nala, Il vassallo di Szigeth, Cornill Schut, Nozze istriane, La falena, Océana e Abisso). In esse, come disse Gianandrea Gavazzeni, fu anticipatore: «Riuscì a fondere diversi e contrastanti influssi in una sua cifra personale, precorrendo quell’europeismo impressionistico che esplose con Debussy».