Stefano Raimondi (Milano, 1964) è poeta e critico letterario, laureato in Filosofia all’Università degli Studi di Milano. Sue poesie sono apparse nell’Almanacco dello Specchio (2006) e su Nuovi Argomenti (2000; 2004). Ha pubblicato Invernale (1999); Una lettura d’anni, in Poesia Contemporanea. Settimo quaderno italiano (2001); La città dell’orto (2002); Il mare dietro l’autostrada (2005); Interni con finestre (2009). È inoltre autore di saggi come: La ‘Frontiera’ di Vittorio Sereni. Una vicenda poetica (1935-1941) (2000); Il male del reticolato. Lo sguardo estremo nella poesia di Vittorio Sereni e René Char (2007). È tra i fondatori dell’Accademia del Silenzio.
Il cane di Giacometti (Marcos y Marcos, 2017) è la tua più recente raccolta poetica, secondo tassello della trilogia dell’abbandono, iniziata con Per restare fedeli (Transeuropa, 2013). Vorresti spiegarci il significato del titolo?
La scultura di Giacometti è sempre stata per un me un richiamo alla forza e alla resistenza: un cane abbandonato che continua a camminare. L’abbandono è un sentimento forte che ognuno di noi ha ap-provato e questa partecipazione l’ha reso un sentimento condivisibile. Giacometti poi è stato un’artista che ha saputo non accontentarsi mai di ciò che creava e questo l’ha sempre posto tra coloro che “son sospesi” tra un balbettìo e un rantolo, proprio come sono le parole in una poesia. Esse possono essere un annuncio, ma anche una condanna.
Scrive Fabio Pusterla nel risvolto di copertina: “Esplorare l’abbandono, il senso d’abbandono, dentro le parole e dentro l’orizzonte urbano… ricercarne le costellazioni di immagini, le risonanze interiori, la voragine di un tombino che si spalanca e il viaggio che tuttavia si apre, in una luce incerta: ecco l’orizzonte di quest’opera…” E’ presente nel libro la dimensione esplorativa anche urbana, che mai si stanca di intrecciarsi a quella dell’intimo umano. Puoi raccontarci maggiormente circa questo aspetto?
“Trovare” e non “cercare” è la parola adatta a questa perlustrazione urbana e interiore. Un viaggio nell’abbandono e tra gli abbandoni (oltre che tra gli abbandonati) è sempre un tragitto che si compie venendo da se stessi all’Altro e mai il contrario. L’abbandono è una centralità che porta a incominciare/indagare sempre una riflessione, uno stato d’animo che parte da noi e va a rispecchiarsi sugli Altri e sulle cose. Non si è mai abbandonati senza la nostra esperienza. Una città è per me un corpo e i corpi sono perlustrabili ovunque: il loro dentro è una traccia, il loro fuori una piazza.
Ci sono sempre posti che vengono per portarci via, altri per metterci paura. Questo passo del libro è molto intenso e ti vorrei chiedere a riguardo: quale un posto di cui hai ricordo, che ti ha metaforicamente “portato via”?
Ogni luogo è una svolta che accogliamo in noi; ogni posto è un abitare differente. La città è colma di svolte, di angoli e ognuno è abitato da un’improvvisazione che ci potrebbe cadere accanto e determinare un cambiamento, portandoci ad un allontanamento imprevisto, regalandoci un destino diverso. Ogni posto ci porta via! È questo l’annuncio che ci pone in attesa dei cambiamenti, anche di quelli che fanno male, che ci caricano di abbandoni appunto. Ma non dimentichiamo che la parola abbandono ha all’interno (e alla fine) un’altra parola, che è “dono” e di questo dobbiamo fare tesoro,
Nella sezione finale intitolata Cuore-atlante a un certo punto compare forte la dimensione del sogno e dell’immaginazione, così presenti nei bambini. Cosa senti di avere perso di più crescendo o cosa senti di aver dovuto necessariamente lasciar andare?
Crescendo si perdono – come disse Pasolini – “le lucciole”; quel luccichio negli occhi che era la spensieratezza e la leggerezza del restare collimanti alla vita nonostante tutto e nonostante il tutto. Mentre ciò che ho necessariamente lasciato andare, è quella zavorra dell’“Io” che tanto ingombra nell’età dell’ansia.
Sei tra i fondatori dell’Accademia del Silenzio, oltre che curatore della rassegna di incontri “Paroleurbane”. Di cosa trattano queste due iniziative?
La prima è un tentativo di ridare valore al silenzio, qualsiasi esso sia e cercare di portare la sua centralità in luce nel nostro quotidiano rumoreggiare col mondo. La seconda rassegna – Paroleurbane – è una serie di incontri che pongono in dialogo la poesia con la filosofia, l’architettura, l’urbanistica ecc., facendo risaltare l’importanza della poesia nel discorso umano/urbano. La rassegna è il canto dei luoghi, svolgendosi nella prestigiosa sede di Casa Fornasetti.
Le grazie dell’acqua è il titolo di un’altra tua opera, di recente protagonista di un evento-reading insieme alla presentazione – ad opera di Emanuele Beluffi – delle incisioni dell’artista Mauro de Carli. Vorresti darci una sintesi di quest’opera e soprattutto darci la tua visione di come le arti si possano tra loro sostenere?
La relazione tra il “fare” delle arti è preziosa e questo progetto è stato davvero uno scambio di vedute e di visioni. I disegni di de Carli hanno viaggiato di pari passo alle mie poesie, creando spazi d’intesa e di ospitalità. È questo il compito dell’arte: offrire ospitalità.
Quali i tuoi prossimi progetti culturali, poetici e non?
Rimanere somigliante e felice!
Scegliere le scene più belle
Montarle ad una ad una, farle
diventare il racconto lento dei respiri.
Ho sentito parole dividersi
il pane con la luce rimasta
imprigionata tra i marciapiedi.
Le ho sentite mentre si correva
dalla parte sbagliata delle ombre
colate sulle case a mezzogiorno.
Facevano rigagnoli gelati
cenni, che nei tombini
scendevano male.
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Ecco le notti lunghe, notti
che a dirle bisognerebbe
stare in due: ognuno
dalla sua parte, dove
incominciare a credersi.
Si lanciano i cani i stanare
a prendere tracce, orme
colpe. Si portano nelle ossa
le sfiducie: si fiutano da ciechi.
Sapere, fare i conti, bastarsi
nei silenzi, negli anni.
Stefano Raimondi
Da Il cane di Giacometti (Marcos y Marcos, 2017)
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