Vitaliano Trevisan: “Io non sono un scrittore contemporaneo”

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33857Il suo volto pare estratto dall’Edda, inscritto in una saga nordica. Sì, è vero, c’è un gemellaggio tra l’opera di uno scrittore e il suo viso. Lo diceva anche Iosif Brodskij, «m’innamorai di una fotografia di Samuel Beckett molto prima di aver letto una riga scritta da lui», perché uno con quella faccia lì non poteva scrivere altro. Vitaliano Trevisan ha un viso indimenticabile almeno da Il primo amore (2004) il film di Matteo Garrone – il più bello – che ha scritto e interpretato. Faceva un tizio che è sapiente nell’arte della sevizia, che è sedotto dagli abissi. In effetti, l’opera di Trevisan, da I quindicimila passi(2002) a Wordstar(s) (2004) a Works (2016) è un precipizio nell’ossessione. 

Narratore tra i più forti di oggi, dichiaratamente fuori tempo, radicalmente selvatico, al di là dei palazzi dove si celebra, tra intellettuali incensi, il rito della letteratura contemporanea, Trevisan si è portato a casa, tra l’altro, l’ultima edizione del Premio Riccione per la drammaturgia. Dopo due ‘finalissime’ perdute ai rigori (nel 2011 con la riscrittura goldoniana La bancarotta o sia Il mercante fallito, nel 2015 con Il cerchio rosso. Studio per un affresco, onorato con la menzione consolatoria ‘Franco Quadri’) Trevisan ha vinto quella più importante, quest’anno, quella del settantesimo del Premio andato, alla prima edizione, nel 1947, a Italo Calvino. Salito sul palco, era fine settembre, aria audace di fine estate, come da copione, Trevisan non ha spicciato parola, forse tentato di maledire il premio, come il suo padrino spirituale, Thomas Bernhard, insegna. 

Il testo con cui ha vinto, Il delirio del particolare, di claustrofobico fascino, conferma che Trevisan è il più ispirato scrittore per il teatro di oggi (già autore di testi potenti come Una notte in Tunisia, sul “noto politico” Bettino Craxi, in disfacimento, interpretato da Alessandro Haber, e Solo RH tradotto in scena da Roberto Herlizka, attualmente è in giro il suo adattamento de Il giocatore di Dostoevskij). Nel Delirio del particolare il centro del mondo è una Vedova, stordita dal viavai dei ricordi, che s’inoltra nella morte: quella del marito, quella del grande architetto Carlo Scarpa, morto nel 1978 in Giappone, a Sendai, scivolando sulle scale dell’albergo in cui soggiornava (“Una di quelle morti casuali con cui uno sembra avere un appuntamento”) e quella di Goffredo Parise, che muore a Ponte di Piave, nel 1986 («Era malato ma non si curava. Ha smesso di bere e di fumare quando è entrato in coma. Forse se avesse seguito le indicazioni dei medici sarebbe vissuto ancora qualche anno ma il fatto è che non voleva»). La morte di Parise, in particolare, è un fatto eclatante e definitivo, è «come se fosse calato un sipario… su questa casa, su un’epoca». «Oggi tutti si prendono terribilmente sul serio meno valgono più si prendono sul serio”, sussurra la Vedova al “suo badante», Cecchin, che in Una notte in Tunisia badava agli ultimi istanti di Craxi. A questo punto, contatto Trevisan.

Ci introduca nella parola ‘scandalo’. Ha senso questo termine nella narrativa attuale, le appartiene? Che cosa dà ‘scandalo’, oggi?

Certo che ha senso, e mi appartiene pienamente. Lo scandalo è non tanto essere ‘politicamente scorretti’, atteggiamento che mi disgusta almeno quanto quello contrario, ma riuscire a non essere né l’uno né l’altro – ovvero insistere nel chiamare le cose col loro giusto nome.

Che tipo di assoluto è possibile oggi, tramite la parola? Che cosa, ancora, tocca, di intoccabile, la parola scritta?

Sull’assoluto non saprei rispondere; sulla seconda parte, anche se non si dovrebbe, rispondo con una domanda: che cosa non tocca?.

Tra i morti, che scrittori legge; tra i vivi, riconosce dei ‘compagni di strada’, degli scrittori affini?

Tra i morti leggo molto, ma solo memorie o lettere (mi è appena arrivato il quarto e ultimo volume delle lettere di Samuel Beckett, e ho da poco letto le lettere dalla Scandinavia della signora Mary Wollstonecraft); tra i vivi seguo Eyal Weizman (il suo ultimo, The Roundabout Revolution, è un interessante saggio sul ruolo delle rotatorie negli ultimi moti di piazza cinesi e poi arabi; sembra che le rotatorie abbiano sostituito le piazze, il che è interessante); poi seguo con interesse Mark Ravenhill e in generale la drammaturgia inglese, che sento affine.

Perché scrive? Per indagare le proprie ferite? Per una forma di conferma? Perché non ne può fare a meno?

Ormai da un bel po’ posso dire che scrivo per guadagnarmi da vivere; e tanto mi basta.

Leggi qui l’intervista integrale: pangea.news

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