Giuliano Montaldo: “Vi racconto come nacque ‘Sacco e Vanzetti…'”

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68170Nel novantesimo anniversario dell’uccisione di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, abbiamo incontrato Giuliano Montaldo, autore del film cult del 1971 dedicato ai due italiani “giustiziati” sulla sedia elettrica del penitenziario di Charlestown. Classe 1930, Montaldo, dopo un inizio come attore nei film di Carlo Lizzani, è stato regista di opere celeberrime come “Giordano Bruno” e “Marco Polo” ma anche di pellicole meno ricordate ma sempre attuali come “Il giocattolo” o la più recente “L’industriale”.

Maestro, come nacque l’idea di un film su Sacco e Vanzetti? Come scoprì la loro storia?

Io non sapevo nulla di Sacco e Vanzetti sino a che, sarà stato l’inizio degli anni Sessanta, mi capitò di vedere uno spettacolo, in un teatro di Sampierdarena, in cui si parlava di loro. Dopo la rappresentazione, approfondii quella vicenda grazie all’aiuto di Fabrizio Onofri.

Ci furono problemi durate la lavorazione?

Sì, sin dall’inizio. Intanto non trovavo un produttore. Il primo a cui mi rivolsi, al nome di Sacco e Vanzetti, mi disse: “e che è una ditta di import export?!”. Dopo tre anni di rifiuti, però, incontrai Arrigo Colombo. Appena gli iniziai a parlare della mia idea gli si inumidirono gli occhi. Lui, ebreo fuggito in Stati Uniti, aveva imparato l’inglese leggendo le lettere che scrivevano Sacco e Vanzetti dal carcere. Decise di produrmi e, a quel punto, incontrammo difficoltà a ricostruire gli ambienti. Niente era rimasto come all’epoca, solo la fabbrica in cui lavorava Sacco che, infatti, utilizzai.

E il resto?

Gli interni furono ricreati a Cinecittà e gli esterni furono girati a Dublino e in Jugoslavia.

Furono scelti subito Gian Maria Volontè e Riccardo Cucciolla per i ruoli dei due emigrati?

Sì, Volontè era piemontese come Vanzetti, appena gliene parlai e iniziò a entrare nella parte, mi accorsi che non poteva essere altro che lui a interpretarlo. E Sacco non poteva che essere Cucciolla, di origini pugliesi. Anche se, per problemi di coproduzione (partecipava anche la Francia), stava per essere sostituito di Yves Montand. Io mi impuntai, il film era già partito e vinsi io. Una scelta che si è dimostrata azzeccata visto il premio come migliore interpretazione maschile ricevuto da Cucciolla  al festival di Cannes.

Ci regala un aneddoto sulla realizzazione del film…

Durante la ripresa della famosa scena in cui, in tribunale, viene data la possibilità a Volonté- Vanzetti di parlare, avevo deciso di fare un unico carrello senza stacchi. Iniziai da un primo piano e mi allargai, era tutto perfetto quando, finita l’orazione dello straordinario Volonté-Vanzetti, mi accorsi che uno dei figuranti che impersonava il poliziotto piangeva! Bloccai tutto, chiedendogli: “ma cosa è successo?”, e lui: “mi scusi dottò, mi so commosso”!

Come nacque, invece, la famosa ballata?

Durante la preparazione del film dissi al mio amico Ennio Morricone, che avrebbe scritto la colonna sonora, “ci vorrebbe una ballata”. E lui mi riportò alla realtà: “e che la canti te?!”. Aveva ragione, però un po’ ci credeva pure lui e si lasciò scappare: “ci vorrebbe la Baez”. Anche io fui d’accordo ma non sapevo come contattarla. Tempo dopo mi trovavo negli Stati Uniti per visionare del materiale di repertorio. Un giorno, a New York, incontrai Furio Colombo, gli parlai del mio progetto e lui mi disse: “la Baez, stasera, viene a cena a casa mia”. Corsi in camera, presi il copione e glielo affidai. Il giorno dopo mi chiamò lei dicendomi semplicemente: “ci sto”. Così è nato una ballata che viene ancora cantata in tutto il mondo come inno di Libertà.

Come venne accolto il film?

In Italia, dopo un’iniziale diffidenza, i giovani hanno preso d’assalto le sale. Addirittura, in un cinema di Roma dovettero fare uno spettacolo in più all’una di notte. Anche in Usa ebbe un grande successo tanto da far scendere molti in piazza e portare il governatore del Massachusetts (lo stato che li aveva condannati e uccisi) Michael Dukakis a riabilitare Sacco e Vanzetti.

Il suo primo film è “Tiro al Piccione”, un inizio molto OFF…

Era la vicenda di un giovane che sceglieva di aderire alla Repubblica Sociale italiana per poi scoprire che la Patria era dall’altra parte. Volevo raccontare la storia da un’altra prospettiva, mi ispirai alla biografia di Giose Rimanelli. Però il piccione divenni io. A Venezia, dove il film fu presentato, la sinistra era imbarazzata, la destra incazzata e il centro rideva. Ho sofferto molto per le critiche e l’intolleranza vissuta sulla mia pelle.

Cosa successe dopo?

Entrai in crisi, volevo abbandonare quella carriera appena iniziata, ma incontrai quella che è divenuta mia moglie: Vera, figlia del produttore Leo Pescarolo, che mi offrì, dopo aver visto il mio secondo lavoro “Una bella grinta”, di fare un film in America, “Ad ogni costo”, che andò benissimo al botteghino. Dagiulianomontaldo quel momento le cose iniziarono ad andare meglio. Realizzai “Gli intoccabili”, un’opera molto amata da Quentin Tarantino perché, sostiene lui, “è il primo film con la Mafia in smoking”.

Iniziò così una serie di grandi film come “Gott mit uns” o “Gli occhiali d’oro”, poi, però, per venti anni ha smesso di dirigere per la delusione di non riuscire a fare un film come voleva lei. Quale ritiene l’opera da lei realizzata più corrispondente alle sue aspettative?

“L’Agnese va a morire”, un film voluto dal popolo di Romagna, con attori venuti gratuitamente e in cui, finalmente, si raccontava la storia di una staffetta, di una donna.

Ultimamente lei è tornato al ruolo di attore nel film “Tutto quello che vuoi”…come è andata?

Ho fatto l’attore ricordandomi di come io volevo che si comportassero gli attori. Ed ho scoperto che è noioso farlo. L’attore deve aspettare molto mentre io, come regista, ero abituato ad essere preso da mille cose. Ma non ho potuto rifiutare quando l’autore, Francesco Bruni, è venuto a casa mia a propormelo, raccontandomi, con gli occhi lucidi, che quella era la storia del padre malato di Alzheimer e dicendomi: “se non lo interpreti tu, io rinuncio”.