C’è chi vive San Siro come un traguardo, come una medaglia da appuntarsi al petto per potersi considerare parte dei big della musica. Non è il caso di Davide Van de Sfroos, che per un ventennio ha suonato ovunque, dagli oratori alle piazze passando per i campi sportivi. Il cantautore di Monza, due volte Premio Tenco e quarto alla 61esima edizione del Festival di Sanremo con “Yanez”, sarà in concerto il 9 giugno nel tempio internazionale della musica e del calcio, dove porterà il suo folk fatto di storie e personaggi di provincia trasformandolo in un’enorme balera d’autore in cui per la prima volta si ascolterà e canterà in dialetto laghée. “Molti diranno che c’è uno sconosciuto che suona a San Siro perché per molti Van de Sfroos è appunto uno sconosciuto” dice. “Per una volta a riempirlo non saranno Tiziano Ferro, Vasco Rossi o i Modà. Ma la mia non è una sfida, piuttosto un viaggio, dove le canzoni saranno le protagoniste”.
Quindi non si trasformerà in una rockstar?
No. L’idea è di trasformare San Siro in quello che son sempre stato in tutti questi anni piuttosto che me stesso in qualcosa che non sono e non sarò mai. Lo spettacolo si fonderà sicuramente con il rock poiché ci saranno tre band: una folk, una seconda power-folk ed una terza rock blues. Proporremo tutte le canzoni più rappresentative del mio percorso, quelle che la gente si aspetta, e cercheremo di mantenere con gli ospiti, ovvero gli amici di sempre, un legame tradizionale con gli altri concerti più importanti. Non stupiremo con effetti speciali ma porteremo sul palco una storia.
E’ vero che il concerto durerà tre ore e mezza?
Sulla carta sì, ma i conti si potranno fare solo sul palco.
La musica quando è entrata nella sua vita?
Sono cresciuto nel ‘65 e la musica era dappertutto: erano gli anni in cui la gente andava sulla luna, c’erano suoni legati ai Pink Floyd, i dischi elettronici, c’erano echi dei Beatles e dei Rolling Stones, musicisti come i Genesis. Poi ho scoperto i cantautori. Più che andare io a scoprire la musica era lei che mi aggrediva da tutte le parti perché usciva dalle finestre, dalla radio, dall’auto di mio padre, di mia zia. Questi suoni si impossessavano di me e diventavano la colonna sonora della quale non ho più potuto fare a meno. Col tempo ho cominciato ad essere un cacciatore di dischi e sono stato un grandissimo ascoltatore di tutti i generi musicali possibili, soprattutto quelli molto lontani da ciò che faccio.
Lei canta la sua terra d’origine, racconta il lago di Como. Qual è la magia di questi luoghi?
Sono luoghi strani, con un forte ascendente poetico ed energetico. Possono essere ostili a coloro che hanno altre aspettative, possono dare fastidio la loro profondità, lo spleen e le latitudini gotiche. Ma quelli che ci abitano o ci tornano frequentemente sono stati sicuramente stregati o ammaliati. Montagne molto alte, strade solitarie, pescatori, ex contrabbandieri, costruttori di barche, cacciatori, falegnami: è un mondo che nonostante il progresso e la baraonda rimane un’isola dove i fantasmi riescono a banchettare, sedersi e nelle storie ricomparire. Ho fatto in modo di cantare questa frontiera prima che scomparisse. È ovvio che crescendo e vivendo qua la storie erano alla portata di tutti e all’ordine del giorno. Quando non le cercavi tu arrivavano loro a bussare alla porta.
Mi perdonerà il bisticcio di parole, ma lei è portavoce di chi ha poca voce. Va in controtendenza.
I miei sono personaggi che di solito non vengono messi in una canzone. Ci sono quelli che hanno avuto vite strane, quelli che si ostinano ad andare avanti come una volta, quelli che un tempo erano la normalità ed oggi sono in controtendenza. Sono i cosiddetti spaesati, non nel senso di confusi ma perché non riconoscono più il paese, non sentono più di far parte di quel mondo per cui erano importanti poiché erano i contadini, i costruttori, gli artigiani, i pescatori. Ma esistono ancora e in tutti loro c’è una poesia involontaria. Io mi sono abituato a raccogliere i frutti di un mondo che ha una grande dignità e forza. E non parlo solo di casa mia perché spesso scrivo di luoghi incontrati in America, in Europa.
Nei suoi brani ci sono spesso anche echi religiosi. Qual è il suo rapporto con Dio?
La spiritualità, il non saputo, la dimensione religiosa, magica, sono presenti perché io mi ritrovo costantemente, fin da bambino, a farci i conti con un percorso a volte anche difficile nel setacciare una fede e andare a curiosare nelle religioni di altri. Non ho messo confini: laddove uno cerca un suo dio, il punto cosmico più alto, io trovo cose interessanti. Sono cresciuto con icone e rosari che nonne e zie portavano a certe festività e processioni e tutto si è tinto oltre che di santo di sacro. C’è sia la parte devozionale che quella liturgica. Demoni, santi, fantasmi e ombre si mescolano. Quanto al mio rapporto con Dio è quello di ricercatore costante, che a volte inciampa, a volte conquista qualche metro in più e a volte riesce a guardare le cose con distacco.
Dei talent show che idea si è fatto?
Negli ultimi tempi ho avuto meno tempo a disposizione per guardarli, ma non li ho mai demonizzati. Anche perché a volte ci sono persone interessanti. Io farò aprire a tre band dell’oratorio il concerto di San Siro per la campagna “Cresciuto in oratorio” e in questo senso ho fatto un’operazione simile a quella dei talent: abbiamo scelto tre gruppi tra settanta. Ad ogni modo dei talent televisivi mi piace la componente sincera del canto, dell’abilità, della versatilità. Tanti giovani hanno doti canore incredibili, sono ottimi interpreti, mentre altri hanno un certa credibilità e professionalità nella scrittura. Mi piace meno quando si mescola la parte reality fatta di lacrime e lettere.
Qualche giovane cantante o cantautore che le piace?
Di quelli usciti dai talent Mengoni mi piace molto per il suo stile e le capacità vocali. Mi piacciono anche Giusy Ferreri e Sergio Sylvestre, anche se a Sanremo è stato penalizzato da una canzone che non l’ha valorizzato.
E’ recentissimo il suo ingresso nella casa editrice La Nave di Teseo. Dobbiamo aspettarci che diventerà scrittore a tempo pieno?
Mi piacerebbe essere scrittore a tempo pieno per avere più calma. Fin adesso sono sempre stato uno scrittore occasionale, un viaggiatore in stile beat generation con taccuini dove tutto era flusso e poi si trasformava in qualcosa di più lineare. Ma tutto quello che scrivevo veniva rapito dai dischi fino alla pubblicazione di un poemetto, una raccolta di poesie e dei due libri “Le parole sognate dai pesci” e “Il mio nome è Herbert Fanucci”, usciti per Bompiani. Entrambi verranno ripubblicati e si aggiungerà un terzo libro. In questo viaggio così lungo mi manca quel potermi ritirare dentro le parole, sento di avere dentro tante cose non ancora esplose. Non ho voglia di trasformarle in canzoni, è arrivato il momento di scrivere un libro di racconti che vada in profondità. Sono onorato di essere entrato a far parte di questa casa editrice fortemente letteraria. Gli altri due libri ho dovuto scriverli tra un concerto e l’altro, è stato faticoso e stressante. Ora vorrei prendere il tempo giusto che deve avere uno che scava per raccontare qualcosa che non è stato ancora raccontato di se stesso.
Quindi sta ammettendo che dopo San Siro potrebbe accantonare la musica?
Dopo San Siro potranno capitare tante cose. Con il tempo sono diventato più riflessivo e preferisco mettermi con un quaderno tra le mani a scrivere.
C’è una frase che ha fatto sua e che la accompagna nella sua vita?
Una frase venuta fuori tra sogno e realtà, che forse non ho ancora decodificato del tutto, ma mi accompagna, è: “La realtà può essere curvata”. C’è una realtà che conosciamo, che vediamo come una strada già tracciata. Invece ho capito che in alcuni casi la realtà può essere aiutata in un tragitto che modifica tante altre cose. Le persone possono cambiare il corso degli eventi e delle cose e curvare o no la realtà può fare la differenza.
A lei la realtà tracciata non pare piacere, visto che sembra amare le sfide impossibili.
Io in realtà me ne starei tranquillo. Ma poi mi ritrovo come la Pantera Rosa in condizioni incredibili, come quando Gianni Morandi mi chiamò a Sanremo per portare per la prima volta una canzone in dialetto (“Yanez”, ndr) e nonostante fossi sfavorito arrivai quarto. O come quando ho riempito due volte il Mediolanum Forum di Assago.