Cercare la verità sotto la cenere. Sotto le macerie della nostra “casa”, il nostro Heimat: la nostra “piccola patria”, il luogo in cui ci sentiamo a posto. Il terrae motus che ha sbrecciato i muri del nostri Heimat è l’annichilimento del nostro senso di appartenenza, il (possibile) tramonto dell’Occidente. I suoi quadri guardano al passato, ma i riferimenti sono declinati al presente, a quell’ossimoro spaziotemporale che Guillaume Faye chiama archeofuturismo e che Padovani definisce il nostro medioevo digitale. «Sentiamo i tempi sulle spalle: l’arte, anche nella sua efferatezza, talvolta rappresenta uno stato di cose meglio delle parole». Così Sergio Padovani. Chiusa la trilogia con la personale Heimat a Bassano del Grappa, terzo capitolo dopo La Peste e Morte delle Muse, il ricercatissimo artista modenese si accinge a ripartire con un nuovo percorso pittorico e concettuale, di cui l’ultima serie Voarchadumia è stato l’antipasto, cui entro breve alla Fiera di Vicenza seguiranno i primi, i secondi e il dessert (grande novità di cui non vi anticipiamo nulla) e in autunno a Imola una mostra “laicamente devota” con quindici inediti ritratti di santi à la’ Padovani. Innanzitutto il dizionario: Voarchadumia denota un testo alchemico del Cinquecento, ma anche una società supersegretissima di cui si mormora abbia fatto parte anche il Giorgione. Ora, Sergio Padovani non sarà iniziato a società occulte, eppure è anche lui un ricercatore: più che della pietra filosofale, della verità della tradizione. Con la “t” minuscola, c’entrano niente Evola e Guenon), nella fattispecie la pittura del Quattro e Cinquecento – van der Goes, Petrus Christus, Bruegel- alla luce di questa tela bianca che rappresenta la nullità del mondo moderno.
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