Lui è quello a cui si rivolge Tonino Guerra, in uno degli spot più celebri e sfottuti della storia della tivù. “Gianni, l’ottimismo è il profumo della vita!”. Era il 2001, e Gianni era, è, Gianni Fucci, che il 3 ottobre prossimo di anni ne fa 88, cifra mistica, il doppio infinito a rovescio. Per il suo compleanno, si è fatto stampare un libro di poesie, “Legrimi ad luce” (Il Vicolo, Cesena), che significa lacrime di luce. Ci sono un tot di poesie per l’amico Tonino Guerra, che vuole “capire il luogo dove nascono i sogni”, ma anche per Nino Pedretti, poeta stralunato e riposto, per Flavio Nicolini, grande sceneggiatore per la Rai, per Raffaello Baldini, che è “uno dei tre o quattro poeti più importanti d’Italia” del secondo Novecento (lo dice Pier Vincenzo Mengaldo). Abitavano tutti nel piccolo borgo romagnolo di Santarcangelo, questi artisti straordinari, sospesi tra il cielo abbacinante e gli orizzonti leonardeschi, che in modo diverso (dobbiamo ricordare il sodalizio tra Guerra e Fellini?) hanno cambiato la cultura italiana, e nessuno ha ancora scoperto il segreto di questa estrema vitalità. Ora resta solo lui, Fucci, corpo di pietra e occhi grevi di oceaniche malinconie, uno che si è tradotto in dialetto i suoi autori amatissimi, Rimbaud, Baudelaire, Nietzsche, a testimoniare quel bel tempo perduto.
Canonizzato tra i grandi dialettali dal 1976 (è in tutte le antologie che contano, Garzanti, Einaudi, Utet), autore di un’opera disseminata in una decina di libri, tra cui un arrostisco “Rumanz” (2011) che narra, in ottave, la sua vita, Fucci, che è stato bracciante e muratore, ristoratore e bibliotecario, sembra il più sfigato tra i santarcangiolesi. In realtà, più che stare all’ombra del successo dei suoi amici ne è stato l’ombra grigia. Baldini gli telefonava da Milano “per sapere come scrivere alcune parole in dialetto”, Guerra lo voleva con sé a Roma. Ma lui, che «giocavo a bocce con Michelangelo Antonioni e Monica Vitti, da Tonino», preferì un’altra vita. Fin da subito.
Fin dagli esordi come aiuto regista di Elio Petri, Oscar e Premio speciale di Cannes nel 1971 per “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” e Palma d’oro l’anno dopo con “La classe operaia va in paradiso”. «Petri all’epoca lavorava per “l’Unità”, passava da Santarcangelo per incontrare il suo amico, il pittore e scenografo Renzo Vespignani. Fu Tonino Guerra a presentarci. Voleva fare un corto, che narrasse la storia del garzone di un panettiere che fa le consegne in bicicletta da Rimini, Bellaria, Santarcangelo. E che diventa un talento del ciclismo». Il “corto” s’intitola “Nasce un campione”, ha un certo successo, esce nel 1954 ed è censita come l’opera prima di Petri. Il quale vuole Fucci con sé anche nel secondo “corto”, “I sette contadini”, dedicato alla storia dei fratelli Cervi, su sceneggiatura di Cesare Zavattini, che esce nel 1957. «Sa, Petri era un uomo dalla vita disordinata…». Che vuol dire? «Che ogni notte andava al casino, a donne». E lei? «Io stavo a guardare. E lui mi diceva, “ma che sei frocio?”». Arzillo il Petri… «è che io ero innamorato di quella che sarebbe diventata mia moglie. Per questo non sono voluto andare a Roma».
Dopo il secondo “corto” girato insieme, Petri, che di lì a poco avrebbe girato il primo film, “L’assassino”, su soggetto di Tonino Guerra, con Marcello Mastroianni, pretende Fucci come suo aiutante a Roma. «Eravamo in viaggio da Reggio Emilia a Roma, sul treno. “Non fare lo str***o, vieni a Roma”, continuava a ripetermi Petri. Ma io a Santarcangelo scendo, mi siedo sulla panchina. Lui mi osserva dal finestrino, sporgendosi, con le braccia incrociate, e sussurra, freddo, “sei proprio uno str***o”, “sei proprio uno str***o”, e va avanti così, finché il treno non sparisce all’orizzonte, con una intensità che ancora adesso mi risuona nelle orecchie. Non me l’ha mai perdonata. Ogni volta che lo incontravo, insieme a Flavio Nicolini, mi diceva, “se fossi venuto a Roma… avresti fatto carriera”». Fucci, da parte sua, non perdona a Petri, «un uomo generosissimo», la beata «vita borghese». «Beh, mi ricordo la sua casa romana, piena di quadri di Zavattini e di altri artisti importanti, e le cene, servite da una cameriera con i guanti lunghi, perfettamente agghindata. Alla faccia del comunista Elio Petri!, mi veniva da dirgli». Fucci, che oggi non legge quasi più nulla, la letteratura contemporanea lo urta, naviga in un mondo altro, in una palude in perpetuo contatto con i morti, ha amato «Vittorio Sereni e soprattutto Andrea Zanzotto, che ho ospitato in casa, a Santarcangelo. E anche Mario Luzi, mi piace moltissimo». Ha incontrato anche Mario Luzi, Fucci. «A Sant’Agata Feltria, era ospite per una lettura poetica. Ero seduto al suo fianco. Ma non gli ho detto che ero un poeta, non me la sono sentita, mi vergognavo». In questa vergogna, purissima, è il gergo di un grande poeta.
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