Se la corrente della Metafisica ha una data di nascita certa – quel primissimo 1910 quando Giorgio de Chirico dipinge “L’enigma di un pomeriggio d’autunno” – il concetto risale agli albori della filosofia (pensiamo ad Aristotele) e anche nella storia della pittura gli esempi inconsapevoli o prodromici sono innumerevoli; la piazza di sfondo al san Sebastiano di Antonello da Messina è così dechirichiana e se non fosse per questioni temporali diremmo che è stata copiata. Questo per dire che il lavoro di Ciro Palumbo sapiente pittore metafisico è radicato in una tradizione più fonda del solo
Novecento e assolve a quel bisogno del tutto umano di esprimere ciò che esiste oltre l’apparenza sensibile della realtà empirica, quel quid sfuggente, talora in procinto di svelarsi, come da una breccia o “da un malchiuso portone”, direbbe Montale.
Certo sul tema metafisico, si innesta lo sguardo surrealista alla Magritte, a cui si aggiunge una sensibilità del tutto contemporanea che permette a Palumbo di non essere un mero ripetitore di codici usurati, semmai il prosecutore di una tendenza, più ancora direi di una poetica connaturata al fare arte fin dagli evi remoti. E anche nella sua ultima personale, dal titolo “Lo spirito e la carne”, curata con acume da Alessandra Redaelli (fino al 31 luglio alla Biffi Arte di Piacenza), Palumbo aggiunge un tassello a una ricerca decennale in cui anche la rappresentazione del cuore, inteso come organo di fasci muscolari irrorati, non ha nulla del simbolino pop alla Warhol o alla Koons, bensì la solida presenza del pensiero che scaturisce dal reale e si fa simbolico grazie all’intervento dell’artista, permettendoci quello scavallamento, oltre il muro della realtà fisica, appunto metafisico