Il pop colto di Beppe Devalle

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E’ in corso al Mart di Rovereto, fino al 16 febbraio 2016, una mostra inusuale su un pittore dimenticato troppo presto. Per riscoprire uno dei grandi protagonisti del Novecento italiano, rileggendo la storia secondo criteri completamente diversi.  Nello svilupparsi di una carriera fatta di crisi continue, Devalle si rende conto di non poter continuare a dipendere così direttamente dal prelievo dalla realtà. Sente di dover verificare gli strumenti del discorso, senza fare un cine-giornale di bellezza. Dopo aver studiato scenografia all’Accademia Albertina di Torino, aveva iniziato la sua carriera di artista dapprima con i pastelli a cera, che lo portano fino alla Biennale di Tokyo, poi con gli acrilici, esposti con Michelangelo Pistoletto alla Galleria Galatea di Torino. Una carriera costellata di successi alternati a momenti di ripiegamento, quella di Beppe Devalle (Torino, 1940 – Milano, 2013).

Sotto l’ala di Ponente e Barilli, con i suoi collages era arrivato anche alla Biennale di Venezia. Dal 1976 venne incaricato dell’insegnamento di Pittura all’Accademia di Brera; dopo la collaborazione come disegnatore al Corriere della Sera, e un volontario esilio dalla scena pubblica, era tornato al disegno, iniziando a riutilizzare i suoi collages come base per grandi dipinti su tela. Purtroppo, dopo essersi trasferito a New York per provare l’avventura americana, la malattia lo aveva costretto a tornare in Italia, dove era riuscito ad esporre i nuovi lavori in due grandi mostre al Serrone di Villa Reale a Monza ed al Museo Diocesano di Milano. Era tornato allora allo studio della prospettiva (e quante letture colte, in quegli anni…), alla costruzione di impalcature tridimensionali di quadri di testa, di studio: Ebony, Prospettiva, Complesso, African Tree gli portano via anni di lavoro, in un momento storico in cui Germano Celant e i poveristi facevano operazioni che dire agli antipodi sarebbe eufemistico.

Tornato consapevole del linguaggio di base, delle strutture del quadro, Devalle riscopre le immagini dei rotocalchi. Niente della consapevolezza acquisita viene perduto: la ragnatela geometrica di Beppe diventa il baluardo della lotta contro l’irrazionale e l’istintuale dei “surrogati artistici tendenti a far coincidere l’arte con la vita”. Se si parte dall’inizio della mostra, allora, si vede un giovane pittore torinese affascinato dall’Informale di Gorky, dall’hortus conclusus di Klee. Un pittore che poi viene turbato dall’Almanacco Bompiani dell’Arte Pop del 1963 (quando non c’era Internet…), che rivoluzionerà per sempre la sua opera. Ma l’atteggiamento è, da subito, critico: il prelievo dalla realtà avviene attraverso il collage dai rotocalchi più popolari, secondo l’idea di un pop “colto” più tipicamente inglese che americano. E tuttavia Devalle sembra ancora più critico nei confronti di quella realtà perché, a differenza di Hamilton, lui le figure non solo le accosta in modo esplosivo, ma le taglia-e-cuce, le distrugge con crudeltà, le usa come una nuova Hannah Hoch ossessionata dall’eleganza. I colori cambiano, inizia a usare gli acrilici per trasferire il collage su supporti più grandi e stabili. Sono anni di successi, di Biennali, di grandi critiche.