“L’abisso tra filosofia e politica si apre storicamente con il processo e la condanna di Socrate”. Questo l’incipit del Socrate di Hannah Arendt, terza e ultima parte di un corso tenuto nel ’54 negli Stati Uniti per la prima volta tradotto in Italia (Raffaello Cortina Ed., pp. 124, € 11). Arendt, allieva di Heidegger e Jaspers, perseguiva il “pluralismo” in ambito politico. Non le piaceva essere definita “filosofa”, preferiva che le sue riflessioni fossero collocate in un ambito più vago, detto teoria politica. Va da sé che, non ostante le cavillose distinzioni, al di là delle sue opere più note, come La banalità del male, Arendt dedicò non poco del suo tempo ad analizzare immortali del calibro di Platone, Aristotele e – appunto – Socrate.
La frase con cui apre la dissertazione sul processo per eccellenza della storia occidentale, con Socrate che non riesce a provare la sua innocenza e muore, apre il vulnus segnato da una maledetta tazza di cicuta. Da allora l’allievo prediletto, Platone, perde fiducia nella Polis: il pensatore disprezza la politica se ne distacca. La figura di filosofo-cittadino incarnata da Socrate decade per sempre, così come la speranza di migliorare la città tramite le armi della conoscenza: maieutica e retorica per esempio.
C’è, in questa moderna apologia di Socrate, una grande nostalgia, che segna il bisogno di un’integrazione tra il pensatore, figura all’apparenza residuale, e la vita politica, in un’epoca stretta tra la tragedia della seconda guerra mondiale e la guerra fredda. La tirannide bussa troppo spesso alle porte della storia e la Arendt sperava di esorcizzarla con il dialogo, o meglio con l’arte della persuasione, riportandolo nelle strade, ovvero nella vita pubblica. In modo da chiudere per sempre la condotta aristocratica di Platone (il “nemico della società aperta”, lo aveva definito Popper) superando il conflitto bimillenario tra politica e filosofia.