Valentino: lusso targato Zoolander

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Dici Valentino e subito viene in mente una di quelle maison storiche che sono come il buon vino: migliorano con l’andare avanti. Intendiamoci, l’operato di monsieur Garavani ha lasciato un segno indelebile nella storia del costume così come lo conosciamo oggi, anzi, un marchio talmente forte da rischiare di diventare una cicatrice di quelle che non guariscono se non curate bene da chi è chiamato al difficile compito di perpetrare l’immagine della griffe senza snaturarla, e al tempo stesso di adattarsi alle esigenze moderne e al cambiamento dei tempi.

Cosa sarebbe oggi Valentino se si fosse lasciato sedurre dal trend più popolare del momento che porta alta la bandiera dello sportswear da indossare sempre, anche in occasioni ufficiali? In questi termini Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli sono riusciti in un’impresa dura, e lo hanno fatto con successo in un momento storico ed economico non facile da affrontare – neanche per chi si trova a dirigere una maison blasonata- in cui il richiamo della pubblicità facile, della risposta immediata alle tendenze modaiole (e non di moda!) possono essere seducenti al punto da far perdere di vista l’obiettivo reale.
Geniali, Chiuri e Piccioli, non solo per la predisposizione naturale a mantenere alto il tasso di magia insito nelle radici stesse del marchio raccontando stagione dopo stagione storie colte, tanto meno per le indiscusse capacità che rivelano un’attenzione al dettaglio rara, con cui hanno contribuito a creare un passaporto privilegiato per quel made in Italy tanto famoso all’estero la cui bandiera i due portano ben alta (pur sfilando a Parigi). La scaltrezza sta tutta nel modo in cui i due designer, negli anni trascorsi dal loro insediamento (dal 2008, dopo la parentesi Facchinetti), hanno saputo rimanere fedeli alle esigenze del marchio senza dare ascolto alle tendenze stagionali, eppure dimostrando (soprattutto con i numeri, che hanno registrato in un anno complicato come il 2014 una crescita dei profitti della maison pari al 36%) che il lusso, quello vero, quello insomma che prevede lavorazioni artigianali incredibili, può essere alla moda sì,  in modo più leggero, moderno. Una cosa seria, insomma, ma non seriosa, che può permettersi di ridere e giocare, ma solo, sia ben chiaro,  quando gli abiti hanno finito di parlare.

Ecco spiegato l’inaspettato fenomeno Zoolander che ha fatto il giro dei social in poche ore dopo che Ben Stiller e Owen Wilson, in arte Derek Zoolander e Hansel ossia gli amatissimi protagonisti del film che ironicamente traccia una parodia del fashion system, hanno sfilato sulla passerella della maison a Parigi immediatamente dopo le 84 uscite dedicate alle artiste e muse Emilie Flöge e Celia Birtwell.
Un’operazione di marketing furba, intelligente, a doppio senso, che, mentre promuoveva il secondo capitolo del film in uscita a febbraio (e girato in parte proprio tra le mura della sede romana della maison, con tanto di cast di stelle del settore comprese, pare, Karlie Kloss, Cara Delevingne e Alessandra Ambrosio) traghettava gli abiti dell’autunno inverno 2015 sulla principali pagine della stampa internazionale senza travolgerli, con composta scaltrezza e parlando ai giovani, ossia i probabili, futuri clienti del brand.
Il lusso così diventa non solo quello dettato dalle capacità sartoriali, ma anche quello di permettersi un pizzico di umorismo nei tempi azzeccati e senza investire gli abiti, senza cambiare i connotati all’estetica ben consolidata del marchio. Senza giochi, senza pasticci, senza quel tocco pop così legato a questo momento storico da sembrare necessario a tutti costi, senza correre, insomma, il rischio di uccidere il reale valore di un brand che, pur rimanendo fedele a se stesso,  si reinventa ad ogni sfilata. Un cambiamento che agli occhi di chi è capace di guardare oltre l’orizzonte diventa necessario per parlare la stessa lingua delle nuove generazioni che sono fatte anche di questo: di Zoolander, di pose stile Magnum e (speriamo) di moda colta.

di Donatella Perrone