I mandala di Ester Grossi alla ricerca della forza del simbolo

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Nelle opere di Ester Grossi, giovane artista versatile ed eclettica, si avverte, anche senza conoscerne la storia o la biografia, una sottile, sotterranea fascinazione che attraversa il suo immaginario e la sua poetica per l’iconografia e l’estetica dei simboli che pervadono i media e in generale la cultura di massa. Affascinata e quasi ossessionata dall’uso continuo e pervasivo di simboli nella società contemporanea, nell’immaginario popolare e in tutto ciò che ci circonda, dalle forme stilizzate continuamente ricorrenti nella pubblicità e nei media, alle icone diffuse nei social network, nei video, nei film, nei magazine popolari – in una fusione perfetta di estetica accattivante e rassicurante e di sottile persuasività occulta, a volte surreale in una realtà ormai disgregata e in decadenza -, Ester Grossi ha avviato in questo nuovo ciclo di opere un percorso di ricerca in un certo modo più astratto e rigoroso, che l’ha portata a indagare anche tecniche e linguaggi differenti.
Partendo infatti, nei precedenti cicli di opere, da un immaginario ispirato ai personaggi e alle pellicole americane anni Cinquanta, alla pittura pop di Warhol e di Wesselmann, e alla rievocazione della sua terra d’origine e dei luoghi d’infanzia, a cui ha dedicato il suo lavoro in questi ultimi anni, ora indaga, in un continuo percorso di ricerca, sulle infinite possibilità di riduzione della realtà circostante a pure ed essenziali immagini simboliche, ripercorrendo un tracciato che dalle origini dell’antichità classica e occidentale arriva fino ai media, all’invasione delle immagini e dei messaggi nell’età contemporanea. “Mi interessa in modo quasi ossessivo il lavoro sul simbolo e sulle icone della cultura di massa: ho sempre avuto un forte desiderio di conoscenza del mondo circostante, che chiaramente è uno strano miscuglio di forme classiche e contemporanee, e già da tempo sto studiando il simbolo dall’antichità all’età odierna, ricollegandomi anche alla mitologia più antica ed emblematica della mia terra.”

LScalea, acrilico su tela, 80X80, 2014
Scalea, acrilico su tela, 80X80, 2014

Il termine “simbolo” ha origini sacre e antichissime, e già i Greci percepivano la realtà come abitata da improvvisi segni di ogni genere, simboli enigmatici, brevi ed essenziali, che andavano interpretati e codificati. All’origine, il termine “simbolo” assimila diversi significati, di “uno composto da due”, “segno di riconoscimento” e allude all’antica tradizione sacra di spezzare in due una tavoletta e nel conservare le unità separate come pegno di un patto di ospitalità concluso; da qui viene ad indicare tutte le relazioni e gli accordi che si ratificavano con un segno visibile; quindi dal verbo omonimo assume il significato di “unire qualcosa di separato, incontrarsi, raggiungere un’unione”, e ancora di “risolvere qualcosa di enigmatico”, soprattutto in ambito sacrale e religioso.
Gli antichi dunque, soprattutto in poesia e letteratura, legarono fin dall’origine il significato di simbolo alla sfera del sacro e della religione: il simbolo è ciò che parla all’uomo dalle profondità nascoste della natura come segno o avvertimento e che si impone all’evidenza come qualcosa di straordinario, di breve e immediato. Il simbolo è evidenza istantanea, è ancora oggi “ogni segno o parola che, confermando la verità di un’asserzione o dottrina, le conferisce piena certezza tutto in una volta, in modo istantaneo: chiamiamo simboli le massime capacità di rappresentazione,” scrive lo storico delle religioni e filologo tedesco Friedrich Creuzer. Per i Greci dunque il simbolo era ricettacolo di chiarezza, semplicità, brevità e di armonia e bellezza, dove immagine e parola si compenetravano reciprocamente, come nelle maestose e misteriose costruzioni degli antichi Egizi che per primi seppero fare ampio uso di ciò che si può definire “architettura simbolica”.

Per certi aspetti, dunque, Ester Grossi attingendo a piene mani per il suo lavoro alla polisemia offerta dal termine “symbolon”, a una modalità di comunicazione “primitiva”, a una sinteticità “antica”, ma estremamente efficace, mette in secondo piano ogni aspetto narrativo e discorsivo, per scomporre immagini, icone di massa, elementi simbolici della cultura contemporanea, in singole parti strutturali, in moduli e forme astratte, riducendole a pure geometrie, frammenti, segni grafici che poi, come in un moderno mandala, ricompone sulla tela in nuove e inaspettate composizioni.

Alla ricerca continua dunque di una sua personalissima e assolutamente originale iconografia, Ester Grossi crea con rigore formale e concettuale un nuovo linguaggio, scarnificato e ridotto ai minimi termini, che trascenda anche ogni aspetto temporale e materiale, ma che si richiami per certi aspetti ad alcuni tratti che hanno sempre caratterizzato il suo linguaggio pittorico. “Vorrei portare alle conseguenze ultime la mia pittura: ciò che sentivo di voler fare, era innanzitutto estremizzarne alcuni aspetti del mio lavoro precedente, quali l’essenzialità del tratto, la forza cromatica, il rigore e l’impatto comunicativo”.

LCarnevalesca, acrilico e smalto su tela, 100X100, 2014
Carnevalesca, acrilico e smalto su tela, 100X100, 2014

Scegliendo dunque alcune immagini rappresentative ma non per questo scontate dell’immaginario collettivo, Ester Grossi, da sempre attenta indagatrice di tutte le forme d’arte della modernità e affascinata in qualche modo dal rigore e dall’essenzialità di forme assolute, ha individuato alcuni capolavori riconosciuti dell’architettura razionalista, sulle cui tracce, scattando foto e prendendo appunti, si è mossa nel corso di una serie di viaggi-pellegrinaggi tra la Francia e il Sud dell’Italia.

“La mia idea è quella di partire da alcune architetture moderniste diventate veri e propri simboli. D’altra parte, la scelta del modernismo non è casuale, ma legata alla mia passione per il suo rigore e al fatto che sono architetture che richiamano sempre una situazione di ‘sospensione temporale’, come del resto il mio stile…”.

Ecco dunque comparire nelle sue opere uno dei capolavori assoluti dell’architettura moderna, la Ville Savoie, di Le Corbusier, nel cuore della Francia, a Poissy, della cui rigorosa struttura l’artista ha estrapolato gli essenziali moduli architettonici, fino a farli diventare elementi puramente grafici, che poi ha trattato in modo indipendente, assemblandoli e “incastrandoli” a suo piacere, come in un gioco di scomposizione quale il Lego. “In un certo senso, ho voluto ‘distruggere’ questi simboli e cercare di creare un mio mondo simbolico di sola forma e colore, abbandonando l’aspetto narrativo che ha sempre contraddistinto i miei lavori e che mi legava molto al cinema”. Di qui, quindi, come in uno psichedelico caleidoscopio, l’artista ha ripetuto in una serie di opere differenti, come in “Poissy”, alcune “versioni” di scorci della villa di Le Corbusier, ricomponendo frammenti essenziali fino a far emergere solo il colore, un rosso intenso, con una tavolozza forzata fino a raggiungere tonalità fluo e smalti che fuoriescono dalla tela. In “Parallele”, la fascia rossa diventa una sorta di personalissimo “logo” riproducibile all’infinito, che si carica anche di sottili valenze evocative, suggerendo, in questa estrema pulizia e nitore, l’idea di un paesaggio idilliaco e di un mondo perfetto, sulle tracce delle pubblicità anni Sessanta e Cinquanta, ma che all’opposto, come in un film di David Lynch “Velluto blu”, richiama in modo sotterraneo le tracce di una realtà torbida e decadente.

LVilla Malaparte, acrilico su tela, 50X50, 2014
Villa Malaparte, acrilico su tela, 50X50, 2014

In un’altra serie di opere, appare un ulteriore capolavoro dell’architettura razionalista, Villa Malaparte, a Capri, progettata dall’architetto Adalberto Libera su un promontorio roccioso che sembra sorgere direttamente dal mare; qui Jean-Luc Godard ha girato negli anni sessanta uno dei suoi film più famosi, Le Mépris. Con un procedimento già prima sperimentato, gli elementi architettonici sono stati ridotti a forme astratte, essenziali, e l’imponente scala che conduce all’edificio ne diventa il simbolo identificativo nell’acrilico “Scalea”: sfrondata da tutto ciò che è superfluo alla percezione dell’uomo, ciò che rimane è lo scheletro dell’immagine, l’essenza comunicativa, la forma e il colore rosso. Anche nel film di Godard, dove sullo sfondo di un rapporto di coppia in crisi sono narrate le riprese di un film sull’Odissea, la maestosa Villa, dominata dalla suggestiva scalinata trapezoidale, diventa vera e propria protagonista: “In questa serie di opere, ho recuperato la mia passione per il cinema, e nei frame del film di Godard alcune meravigliose statue greche, così kitsch da avere occhi fluorescenti, mi sembravano in qualche modo riecheggiare le mie nuove tonalità fluo.”

Le linee stesse essenziali della villa, come in una sorta di elaborato stencil di ultima generazione, ricompaiono con scorci differenti in “Villa Malaparte” e “V. Malaparte”, in una precisa, colorata e quasi asettica ripetitività di warholiana memoria. Nell’opera “Denti”, dal titolo asettico e informale, si indovina di nuovo in una forma a trapezio la scalinata della Villa, inclinata, mentre in “Diorama” la simbologia della scala diventa occasione per un’opera installativa, in cui i moduli grafici tratti dall’edificio vengono realizzati in legno, veri e propri moduli a blocchetto, e ricomposti in linee morbide, che nulla hanno della regolarità dell’edificio razionalista.

Con un procedimento simile, Ester utilizza questo processo di frammentazione dell’icona anche nei suoi ritratti, trasformando le forme geometriche e rigorose degli stilemi architettonici in linee morbide e sinuose, che riflettono in qualche modo posture e gestualità dei suoi modelli, femme fatale del cinema muto anni Trenta, come nell’opera “L’entrée du printemps”, dove la disgregazione delle forme crea nuovi disegni o in “Lattescente”, in cui si sovrappongono stilemi geometrici e forme morbide. “In questa nuova fase scompongo l’icona simbolo e l’utilizzo come matrice, ruotando e togliendo parti e dettagli. Un processo che sto perseguendo metodicamente, fino alle estreme conseguenze e che forse mi porterà all’astrazione totale.”

Un continuo processo di frammentazione e ricomposizione che Ester Grossi affronta sempre con atteggiamento ironico e divertito, come un gioco di scomposizione, dove si può muovere con irriverente libertà formale e compositiva. Così anche il titolo di questa mostra, “Token”, un termine che significa “segno”, “simbolo”, ma anche “pegno”, “gettone”, sottolinea l’aspetto ludico del suo lavoro e legge questa metodologia dissacrante delle icone della contemporaneità come parte di un gioco da tavolo di abilità e di strategia a cui tutti possono partecipare.

Dunque, in questo processo di continua ridefinizione di tecniche e linguaggi, che si rincorrono e si intrecciano, ci appare ora nelle opere di Ester Grossi un mondo formale completamente rivisitato, quasi astratto e onirico, reso con un segno grafico nitido ed essenziale, e una tavolozza dai colori piatti e brillanti, dalle tonalità fluo, che creano un’atmosfera sospesa e rarefatta, immersa in un mondo magico e irreale.

 

> Galleria Bianca Maria Rizzi & Matthias Ritter
Token
di Ester Grossi
fino al 15 gennaio 2015