Matteo Procaccioli, metafisica dell’abbandono

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Il fotografo che ritrae la vita degli edifici dismessi.

di Clelia Patella

La fotografia di Matteo Procaccioli nasce come conseguenza a una duplice esigenza: da un lato, il bisogno di esorcizzare la paura dell’abbandono; dall’altro, l’intenzione di cogliere nei segni delle architetture e delle città il “tra”, la traccia del passaggio tra tradizione e contemporaneità. Là, dove la vita quotidiana scorre spesso inconsapevole della storia e delle culture che l’hanno preceduta.

A questo inevitabile risultato Procaccioli è arrivato dopo aver sperimentato diversi percorsi. Lui, che lavora nel fashion marketing, in parte per quelli che ritiene essere i limiti posti dall’obiettivo (nel senso di fine ultimo) degli scatti della fotografia di moda ed in parte come reazione naturale alla chiassosità ed alla connaturata mutevolezza del suo ambiente di lavoro, cerca conforto – ma soprattutto risposte – ritraendo paesaggi vuoti, e riempiti solamente da strutture architettoniche. Che sono altrettanto vuote, o per meglio dire prive di ogni riferimento a figure umane o alla loro presenza, ma che nel loro monumentale silenzio rendono tale presenza forte ed implicita.

Procaccioli ha iniziato fotografando strutture abbandonate. Relitti di un mondo passato, che è stato vissuto, ma di cui non coglie il quasi ovvio aspetto malinconico: ai suoi occhi, questi soggetti garantiscono la possibilità di raccontarsi ipotesi, di ricostruire episodi o anche epopee, senza che però nulla di palese possa richiamare ad una trama specifica o a una storia umana: ogni risposta è lasciata alla suggestione evocata dallo scatto e dalla sua elaborazione. Un’elaborazione che viene operata coniugando tecniche tradizionali e innovative, dapprima “dipingendo” digitalmente lo scatto, ed in seguito – in fase di stampa – lavorando sulla matericità della fotografia. Il risultato, se dapprima può apparire di gusto retrò, tende invece piuttosto a dare alle opere un aspetto atemporale, quasi metafisico, contribuendo di fatto a svincolare ulteriormente i soggetti da canoni “umani” di osservazione, quali quelli che debbono necessariamente sottostare ai vincoli dello spazio e del tempo. E lo stesso effetto si ravviserà in seguito, quando il fotografo dedicherà la sua attenzione a skyline, edifici, paesaggi urbani tuttora funzionali e vivi, ma svuotati – nei suoi scatti – di ogni riferimento palese alla vita ed ai suoi limiti, per cogliere sempre e solo l’essenza della struttura, per percepire l’assenza che era implicita negli edifici relitti.

Da questo suo approccio iniziale, in cui vi era una ricerca di verticalità con un punto di ripresa dal basso, Procaccioli perviene – nel suo ultimo progetto, Microcities – ad un cambio di visuale necessario per una riconsiderazione del rapporto tra le strutture e lo spazio: intere città vengono ora riprese dall’alto, a volo di uccello. Ponendo in evidenza la loro collocazione nel contesto delle forme naturali circostanti, e rendendole in questo modo apparentemente piccole, quasi un contraltare alla maestosità della visuale dal basso. Per ricordare che l’assenza della “natura” nelle foto di Procaccioli ne implica comunque la presenza, e ne sottintende la grandiosità.