Romano Prodi, le sedute spiritiche, e il Kgb

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Siamo italiani, facciamo il callo a tutto, soprattutto alle cose che vanno male per colpa nostra. Additiamo lucidamente l’imbarbarimento collettivo, come se della collettività non facessimo parte. Abbiamo fatto il callo soprattutto a questo, al deresponsabilizzarci tagliandoci fuori dal paese. I bagni degli autogrill sono indecorosi per colpa del paese, il governo è lo specchio di uno schifoso paese, la verità non viene a galla perché il paese dorme. Abbiamo fatto il callo persino alle lamentazioni grilline, quegli appelli/urli virtuali corredati da un numero imprecisato di punti esclamativi, che oramai usiamo come colore folkloristico nelle conversazioni private. E quel folklore, quei calli ci impediscono sempre di più di fidarci della nostra stessa capacità di decodificare informazioni: a qualsiasi proposta di rianalisi storica, per esempio, facciamo fatica ad appaltare anche solo un proposito di impegno (prima accadeva perché eravamo pigri, ora accade perché siamo pigri e ci piace ironizzare sbolognando tutto esclamando “GOMBLOTTO!!!”).

locandina moro verita negataA limitare questa strana forma di cinismo vanitoso e autoindulgente invita Carlo Infanti, attore e regista teatrale, nel suo spettacolo Moro, la verità negata – in scena all’Abarico di Roma – tratto dal suo stesso film-inchiesta sui “55 giorni che hanno cambiato la storia d’Italia”, cioè quelli che intercorsero tra il rapimento di Aldo Moro e il suo assassinio. Interloquendo agilmente con due forme, il teatro canzone (dopotutto nel suo curriculum compare la partecipazione a Il Grigio di Gaber e Luporini) e la docu-fiction (nello spettacolo vengono proiettate diverse interviste), Infanti pone due domande fondamentali: chi erano i mandanti delle Brigate Rosse e, soprattutto, se Aldo Moro avrebbe potuto essere salvato.

Al centro, l’Aquila di Scandiano, al secolo Romano Prodi. Partendo da un fatto che, sebbene ormai noto e comprovato, si fatica a far rientrare nella narrazione e ricordo della vicenda, ovvero che Prodi partecipò alla “seduta spiritica dei professori”, il 2 aprile del 1978, quella in cui venne indicato il nome Gradoli come posto in cui Moro veniva tenuto sotto sequestro, Infanti dimostra quante ombre sono state poste su quello che accadde dopo e le incongruenze che, sebbene lapalissiane, le autorità competenti hanno ignorato. “A Gradoli non c’è stata alcuna perquisizione”, dice un ex della giunta comunale del paesino della Tuscia, dove si concentrarono gli investigatori prima di arrivare in ritardo davvero in via Gradoli, a Roma, senza che però il presidente venisse trovato.

A costringerci a interrogarci sul perché a quelle indicazioni non abbiano seguito le giuste – e ovvie – misure investigative, Infanti arriva non solo riportando un’analisi pulita dei fatti (abbastanza inquietante la dichiarazione di un ex del KGB, che, quattro mesi prima del suo assassinio, nel 2004, svelò che Prodi era in stretto contatto con i servizi segreti dell’Unione Sovietica), ma soprattutto raccontando come la mancanza di verità lo avvilisca e svilisca, attraverso monologhi che hanno il coraggio di richiamarci a principi che dovrebbero essere ovvi, ma che la nostra incapacità di pensare alla “libertà come partecipazione” continuano sempre di più a farci recepire e liquidare come ingenui, quindi trascurabili.

5 Commenti

  1. Parafrasando, non troppo corretattamente dal punto di vista grammaticale, un famoso detto latino si
    potrebbe sentenziare che “in Medium stat virtus”.

  2. Tra Napolitano e Prodi, possono darsi la mano ed andare a braccetto.
    Il loro passato è stato pagato caro dalla popolazione italiana.
    Quello che non capisco, è che ci sono ancora degli imbecilli che li votano ed hanno fidicia in loro.
    IL MONDO STÀ DIVENTANDO PAZZO!!!

    • è italiano. Il “se” può reggere anche il futuro e il condizionale se usato in forma dubitativa.

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