Marco Orsatti: arte, memoria e territorio a Bussana Vecchia

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Marco Orsatti (1953, Trento), pittore e scultore che vive a Bussana Vecchia, affascinato dal potenziale espressivo del colore, disegna da sempre. Dipinge a memoria luoghi ed esperienze vissute. Per l’artista, come dice Kierkegaard la vita si capisce all’indietro ma si vive davanti. L’abbiamo incontrato nel suo atelier a Bussana, dove lavora in solitudine principalmente per se stesso.

La tua vita è un romanzo. Hai girato il mondo, vissuto a Trento, Torino, San Francisco, in Svezia, in Brasile. Negli anni ottanta ti sei trasferito a Bussana Vecchia, dove attualmente vivi e lavori, perché?
Perché allora a Bussana Vecchia significava auto costruzione: poter creare il proprio spazio abitativo insieme ad altri artisti, riciclando le rovine, seguendo the grain of things (il tessuto delle cose). Il che significava rivivere la situazione di libertà e di diritti civili che avevo sperimentato con artisti, scienziati, intellettuali dell’avanguardia americana a San Francisco in Project one (1972) non all’interno di un edificio, ma in un laboratorio a cielo aperto che era il villaggio.

Ti sei laureato in letterature straniere moderne a Torino nel 1977, poi hai insegnato per quarant’anni in Liguria, che metodo hai adottato e che professore sei stato?
Il metodo che ho adottato è stato quello di utilizzare la maieutica in lingua inglese, e di creare un contesto teatrale dove lo studente non si sentisse giudicato. Le conoscenze devono essere apprese con piacere e curiosità.

Ti senti un sopravvissuto dell’epoca hippy all’insegna di uno spiritualismo mistico ed ascetico?
Sarà meglio individuare cosa intendiamo per hippy. La dichiarazione di Port Huron del 1964: Jerry Rubin, il processo a Chicago del 1968 che ha incriminato gli studenti americani democratici (S.D.S.), definiva quel movimento pacifista basato sul Walden- Civil Disobedience di Henry Thoreau (1854). Il movimento studentesco comprendeva Phd di Berkely che non volevano andare in guerra, veterani del Vietnam, musicisti, artisti, freaks che credevano nella pace e a una visione alternativa del mondo. Questa esperienza è stata formativa. Ma non per questo vivo nel passato.

A Bussana Vecchia ti precede l’allure di sciamano-filosofo , uno strambo, quasi un orso selvatico stile Diogene , poi non usi il cellulare, non hai un sito, ne leggi mail o WhatsApp, ti riconosci in questo ruolo?
Sicuramente sono un orso e il mio cognome né è la conferma. Inoltre, sentendomi un “indigeno”, mi piace confrontarmi con le persone fisiche non con macchine o realtà virtuali che danneggiano seriamente la percezione nella comunicazione. E forse sono anche un cinico. Kin in greco vuol dire cane. I cinici amavano gli animali e le piante e sostenevano l’unità tra Natura e Cultura criticando la direzione in cui l’umanità stava andando, dividendo l’uno in oggetto e soggetto.

Si può insegnare a pensare liberamente, la passione per la conoscenza e l’arte come materia interdisciplinare? Come?
Si. Se non lo insegni ma se lo pratichi. Bussana Vecchia è stata l’espressione materiale di questo intreccio tra arte, conoscenza e libertà. Il fatto stesso di resistere a BV implica passione e intento inflessibile. Il laboratorio aperto ha interagito (1984-95) in modo interdisciplinare con il territorio facendo mostre, iniziative culturali, feste. La conoscenza per ristrutturare il villaggio è stata una pratica di architettura spontanea e di trasferimento di conoscenze tra abitanti – artisti (come fare un muro, l’intonaco, le tubature).

Nel 1984 sei stato tra i fondatori e coordinatori del “Laboratorio Aperto”, quali erano i vostri obiettivi di ricerca e premesse ideologiche?
I confini tra arte e artigianato dovevano rimanere flessibili e non governati da categorie sistematiche. Volevamo (Daniel Harvey, Nazareno Noia) radunare la squadra di artisti internazionali che frequentavano Bussana (ad es. Royal College), proporre l’arte come misura del vivere, occupare lo spazio con l’arte, riconfermando così, la ragione d’esistenza del villaggio. Nella sua fase di Souvenir Art (Manifesto 1987) l’arte “è stata artificio disinteressato, che diventa memoria, pensiero creativo, e opera che non c’era.

Cosa è sopravvissuto di questa esperienza comunitaria?
Bed and Breakfasts e piccole oasi di sopravvissuti della vecchia guardia. Lo spirito dell’arte è ancora una presenza latente. Il pezzo d’arte più evidente è il villaggio.

Dalla ceramica sei passato all’assemblaggio di materiali organici, chi sono gli artisti che ti hanno ispirato?
Remo Wolf mio professore di disegno, Nazareno Noia concettualmente, e Daniel Harvey per i materiali organici. I miei preferiti sono Gaugin e Van Gogh di cui amo i colori.

Pratichi scultura con tecniche e materiali diversi, pittura anche batick e di recente l’acquarello, come nasce un’opera?
Dalla percezione di una lontananza come suggerisce Benjamin.

Negli anni ’90 l’attività di promozione e di organizzazione del gruppo “Laboratorio Aperto” ti ha completamente assorbito, oggi cosa resta del tuo agire per l’arte condivisa con altri?
La memoria di averlo fatto. La ricapitolazione in pezzi d’arte diventa un atto consapevole che indica la mia posizione nello spazio- tempo.

Bussana Vecchia oggi è ancora un cantiere di idee e di sperimentazione artistica, bollata semplicisticamente come una comunità hippies, oppure come tanti altri luoghi è una foodland turistica tra botteghe di artigiani e osterie, cosa pensi?
E’ un cantiere di idee per chi le pratica, e perché il villaggio dà ispirazione. Nonostante ciò è stretto tra l’ignavia del pubblico e la prepotenza del privato.

Sei un artista autodidatta, solitario, intimista e completamente estraneo al mercato dell’arte, quasi un Paul Gauguin contemporaneo, anche a Bussana Vecchia non ti confronti con altri autori ne cerchi relazioni o contesti dove esporre o presentare le tue opere, perché?
Storicamente a Bussana Vecchia gli spazi occupati erano destinati ad essere studi non botteghe. C’era un progetto collettivo artistico quindi non ho mai cercato uno spazio espositivo per me. Ho creduto molto e speso anni e energie per portare avanti il progetto artistico di laboratorio aperto condiviso ma questo negli anni si è esaurito anche perché chi c’era ha preso la propria strada. Essendo il mercato un fattore condizionante l’ho evitato. Ma sono sempre aperto a un confronto sull’arte in termini di pezzi.

Hai una poetica primitivista, dal segno incisivo ed essenziale, incarni simboliste- primitiviste o Art Brut, che importanza ha il disegno nel tuo lavoro?
Il primitivismo è un richiamo ad essere indigeni oggi, cioè a smontare l’impalcatura culturale aristotelica occidentale, il mito della ragione, cioè il percorso culturale dominante, inteso come psiche diviso dal suo soma. Mentre credo che l’Art Brut sia l’ espressione spontanea di un inconscio imprigionato in questa impalcatura. Per la scultura non disegno mai. E dietro ogni pezzo c’è un ragionamento sulla fisica quantistica. Il segno incisivo e essenziale dei disegni col colore è l’ossatura del mio lavoro. Come dice Gaugin va bene dipingere da un modello fintanto che è coperto da un telo: usando la memoria.

Nel tempo hai accumulato meravigliosi e coloratissimi taccuini disegnati di getto con la bic nei tuoi viaggi, perché non hai utilizzato la matita?
La biro non si cancella. Con la matita si usa la gomma. Preferisco il disegno per ricordare e quindi conoscere.

Quanto hanno inciso i tuoi viaggi ed esperienze nei soggetti dei tuo lavoro?
Sono stati determinanti. Ho descritto quello che avevo davanti agli occhi con un tratto veloce: luoghi e persone, per cogliere la totalità della realtà piuttosto che il suo riflesso.

Sei padre di cinque figli avuti da donne diverse, che ruolo hai nelle loro vite?
Credo di essere un punto di riferimento. Vengono tutti a trovarmi o per stare con me. Penso che il mio compito di padre sia quello di aiutarli a sviluppare un’attenzione basata su una percezione del mondo non cartesiana oltre che fornire un supporto materiale.

Il tuo isolamento dal mercato dell’arte è una scelta personale oppure è andata così, perché non sei ambizioso e produci arte per te stesso?
No non produco arte solo per me stesso. La mia scelta di essere fuori dal mercato dell’arte è proprio perché è un mercato. Come ben sappiamo il mercato della bellezza si interessa troppo spesso, al profitto, non allo spirito di verità che l’arte dovrebbe trasmettere come percezione.

Se tu avessi una bacchetta magica e potessi tornare indietro, cosa non faresti più?
Farei le stesse cose.

Come vorresti essere ricordato a Bussana Vecchia, e come immagini il tuo atelier domani dopo di te?
Mi focalizzo sul contemporaneo. Essendo consapevole del fattore entropico non me lo immagino.

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