Dora Tassinari (Roma, 1969), in arte DoraTass, ha unito mente, corpo e ricerca artistica, passando dalla pratica delle arti marziali (è cintura nera di karate) alla laurea in Antropologia Culturale alla Sapienza di Roma, fino all’arte visiva, appresa da autodidatta. Tra pittura e scultura, agli esordi fu sedotta dal potenziale espressivo della luce, scegliendo di approfondire l’olografia analogica in New Mexico, dove vive da pendolare tra Roma e Santa Fe.
Dall’Antropologia culturale all’ologramma, come è successo?
Non è stato un percorso logico, ma intuitivo. Cercavo qualcosa di immateriale e mi affascinavano la neuroscienza, la telepatia, le potenzialità del cervello di intuire processi che non controlliamo. Nella ricerca mi sono imbattuta casualmente nell’ologramma, che mi ha catturato per la sua magia: la luce come materia tridimensionale. Come diceva Talete di Mileto, “La luce mette tutto in chiaro”.
Nel 2012 hai partecipato alla mostra al MIT Museum di Boston, dove hai incontrato August Muth, artista minimalista erede di James Turrell. Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
L’esperienza al MIT Lab, durante il 9th International Symposium on Display Holography (ISDH 2012), è stata fantastica. Era presente tutta quella che io chiamo “l’etnia olografica: cacciatori raccoglitori di luce, nomadi tra arte e scienza”, insieme a fisici, neuroscienziati e artisti. Ho partecipato alla selezione della mostra The Jeweled Net: Views of Contemporary Holography al MIT Museum, presentando il mio lavoro realizzato con una tecnica olografica rudimentale ma con un concept umanistico, intitolato Archeologia del Futuro. L’opera era stata appena esposta alla 54ª Biennale di Venezia al Padiglione Italia: una coincidenza felice.
Il MIT’s Center for Advanced Visual Studies (CAVS) era un laboratorio di ricerca e sperimentazione dove arte e scienza si intersecavano, sotto la direzione di Otto Piene e Stephen Benton. La luce, l’ottica e l’olografia erano all’avanguardia: Lucio Fontana, pioniere nell’uso della luce, faceva parte del gruppo ZERO fondato da Otto Piene. Alcuni artisti presenti avevano collaborato con lui, creando un contesto stimolante. In collaborazione con il MIT, si è inaugurata anche la mostra Pictures from the Moon: Artists’ Holograms 1969–2008 al New Museum: un’immersione totale!
Seguivamo anche il CERN con la leadership italiana di Fabiola Gianotti, impegnata nella scoperta del bosone di Higgs. Il dialogo tra arte e scienza era collaborativo, privo di pregiudizi, aperto persino a chi, come me, non aveva una formazione scientifica. Molte scoperte nascono per caso: gli artisti, con le loro sperimentazioni involontarie, indicano spesso una strada.
Ho conosciuto August Muth, light artist che esponeva un ologramma accanto a uno di James Turrell di grandi dimensioni. La qualità della luce del suo lavoro era superiore e mi ha colpito profondamente. Gli è piaciuto il mio progetto, e mi ha detto: “Dimentica matematica e fisica, vieni nel mio studiolab a Santa Fe”. Sono andata accompagnata da altri due giovani olografi, uno tedesco e una canadese, dopo aver esplorato vari studi negli Stati Uniti per capire meglio le tecniche.
Lo studio di August era unico: utilizzava una tecnica olografica analogica con emulsione al bicromato DCG, simile alla prima fotografia del Novecento, applicata a mano sulle lastre di vetro. Il mio approccio umanistico, diverso dal suo, non interferiva con il suo lavoro, e abbiamo iniziato a collaborare alla serie delle typewriters. È stato un periodo di crescita reciproca, e siamo diventati buoni amici.
August Muth è minimalista, tu sei figurativa post-dada e includi la Pop-Art. Puoi spiegarci meglio il tuo lavoro e i tuoi obiettivi di ricerca?
L’ologramma mi ha affascinato per il suo carattere onirico e surreale. La luce è un medium di comunicazione potentissimo: può trasportare più informazioni delle onde radio. Oggi esiste la tecnologia wireless ottica, che usa le onde luminose al posto di quelle radio. Questo legame tra luce e telecomunicazione mi ha incuriosito, spingendomi a utilizzare oggetti analogici della comunicazione – telefoni, macchine da scrivere, fotocamere, calcolatrici – che funzionano bene come ologrammi.
Al principio creavo composizioni ricche di objets trouvés, cariche di ironia post-dada, come la serie Archeologia del Futuro. Gradualmente queste opere si sono alleggerite, subendo una metamorfosi naturale: gli oggetti hanno perso la loro carica dada ed è emerso un aspetto pop, trasformandosi in icone. Alterno così ologrammi densi di significati temporali a composizioni minimal e pop, privilegiando soggetti legati alla comunicazione.
In sintesi:
- Archeologia del Futuro: ologrammi post-dada.
- Deus Ex Machina: assemblaggi tra frammenti di scultura classica e macchine vintage della comunicazione.
- Impossible Fossils: include fossili nelle composizioni.
- Epigraffiti: sovrapposizione di epigrafia latina incisa su marmo ai graffiti urbani, con inserti olografici (progetto in fieri).
Tutto condivide il tema della luce, della comunicazione, del linguaggio, della parola e dell’ironia.
Sei nata a Roma e vivi a Santa Fe (New Mexico) dal 2012. Non ti sei mai pentita di questa scelta?
No, è un’esperienza che mi arricchisce, sebbene non priva di difficoltà, soprattutto in tempi come questi.
I tuoi lavori vertono sulla percezione dello spazio, la memoria e l’umanizzazione dell’ologramma. Quale opera senti più tua, autentica e istintiva, meno razionale?
Forse i primi Archeologia del Futuro, con le Olivetti: frutto di un’intuizione speciale e del fascino per un nuovo linguaggio. E Water is Life, realizzato durante la protesta dei Sioux contro la costruzione di un oleodotto sulle loro terre.
Nell’epoca della cultura digitale, qual è il ruolo dell’ologramma nell’arte contemporanea?
I miei ologrammi sono analogici, con un processo simile alla prima fotografia del Novecento (quella di Gabriele Lippmann, riadattata da Denisyuk all’olografia). Richiedono costi elevati e pochi laboratori al mondo: non prevedo grande popolarità senza finanziamenti. Un esempio è stato il C-Project (1995–1999), che ha supportato artisti oggi nella collezione del Getty Museum, protagonista della mostra Sculpting with Light: Contemporary Artists and Holography.
L’ologramma è di moda: c’è quello di Gabriele d’Annunzio al Vittoriale e l’avatar di Marina Abramović (progetto MAE). Cosa ne pensi?
Marina Abramović è coerente con il suo lavoro: dal corpo allo spirito, come lei stessa spiega. Il suo avatar è un modo per creare una nuova relazione con il pubblico. Tuttavia, questi avatar 3D sono simulazioni digitali, non ologrammi. Frank Popper, in Aspects of Holographic Art, parla di “estetica dell’assenza” e Light Art: per chi volesse approfondire.
Nel tuo lavoro unisci ologramma, scultura e pittura, includendo sempre un oggetto fisico, come nella serie Archeologia del Futuro. Qual è il messaggio?
Mi interessa il Tempo: scelgo reperti e frammenti della memoria collettiva, sottratti all’oblio e riportati alla luce come ologrammi in viaggio tra passato e futuro.
Quali artisti viventi continuano a ispirarti?
La musica mi ispira di più.
La serie dei Sanpietrini: come nasce e cosa rappresenta per te?
È un omaggio a Roma. La poesia visiva di Mirella Bentivoglio ha ispirato l’opera, nata da un gioco di parole: il sanpietrino (sampietrino), pietra simbolo della città eterna, diventa un cult nel mio lavoro. Unitamente alla pietra romana, con la sua storia millenaria, e all’aureola di luce che la illumina dall’alto – dalla terra al cielo.
Nella serie Deus Ex Machina hai inserito elementi mitologici. Perché?
Fanno parte del mio bagaglio culturale: frammenti classici e meccanici sincronizzati nell’ologramma. I volumi di luce che si compenetrano sono visivamente intriganti, ma tecnicamente complessi – non sempre riescono.
L’ologramma, introdotto in Italia da Studio Azzurro, sta conquistando l’arte contemporanea. Che scenario prevedi per questo linguaggio dell’immateriale?
Sarà popolare per il grande effetto immersivo: vedi Maestros and the Machines a New York, con sculture classiche fuse a macchine robotiche. Forse anch’io ho avuto una buona intuizione con Deus Ex Machina!
Hai mai usato l’intelligenza artificiale nel tuo lavoro?
No.
Che importanza ha il manuale-artigianale nel tuo lavoro?
C’è molta fisicità: nell’olografia uso lastre di vetro pesanti e materiali tossici come cromo e alcol, richiedendo protezioni specifiche.
Quali gallerie o istituzioni seguono il tuo lavoro?
Opere mie sono nelle collezioni dell’Holocenter NY, MIT Museum, Mart e del Getty Museum (che promette bene). Collaboro con gallerie a Santa Fe, Milano e Roma. Sempre più difficile trovare opportunità: il sistema dell’arte è poco democratico, diversamente dallo sport, dove i talenti emergono e trovano sponsor.
Cosa fai a Santa Fe per sostenerti?
Mi ingegno: alterno l’arte al lavoro con bambini, anche autistici. È un volontariato pagato che mi ha ispirato la serie Il mondo salvato dai ragazzini, ispirata al libro di Elsa Morante.
Quale ologramma sogni di realizzare?
La Luna.