Abbiamo scovato Gabriella Kuruvilla (Milano, 1969) nel suo atelier in zona Stazione Centrale, architetto votata all’arte e giornalista professionista, narratrice di storie attraverso scritti e immagini, di una società “ avariata” in cui tutti sono scontenti e nessuno è responsabile delle proprie azione, perché è sempre un problema degli altri. Per lei l’arte è una voca-azione d’impegno sociale, con ironia che non guasta!

Cosa fai per vivere?
Dipingo e scrivo, da quando ero bambina. Non ho mai smesso. Nel frattempo, però, ho preso una laurea in Architettura e sono diventata giornalista professionista: due mestieri che con la pittura e la letteratura hanno evidenti legami, anche se io li ho spesso vissuti come dei “vorrei ma non posso”. Poi mi sono detta “voglio dunque posso”, per colpa di quel motto “volere è potere” mi sa. E mi sono licenziata. Dicendo addio al posto fisso, e a tutti i suoi benefit. Per dedicarmi solo alla pittura e alla letteratura: inseguire i propri sogni è bellissimo, dal punto di vista ideale. A volte meno, da quello reale. Soprattutto economico.
Padre indiano e madre italiana, architetto, giornalista professionista dal 2000, scrittrice, pittrice, illustratrice, come ti definisci e quando hai deciso di fare l’artista e perché ?
Sono nata dall’incontro di due mondi, e due culture, profondamente distanti. Ho lavorato in una rivista di arredamento, che è stata quasi una sintesi tra due attività differenti: l’architettura e il giornalismo. Dipingo e scrivo: due forme espressive che possono sembrare agli antipodi, e che nelle mie opere vengono messe in relazione fino a divenire l’una lo specchio dell’altra. Così che ogni quadro è un racconto, e viceversa. Probabilmente è “meticciato” la parola che meglio mi definisce: la convivenza e il dialogo, nella mia vita e nel mio lavoro, tra ciò che appare diverso. Tra varie metà, che si combinano tra loro. Dando talvolta risultati imprevisti: tipo 1+1=3, che poi è anche il titolo di un mio polittico.
Come organizzi il tuo lavoro in questo spazio?
È una stanza, nel mio appartamento: tra i pennelli, i colori, le tele, il computer, le penne e i taccuini, ci sono una lavatrice e uno stendipanni. In pratica, è pure una lavanderia. Il posto in cui lavo i panni sporchi, in senso reale e -a volte- metaforico. Dentro questo spazio, anche lui meticciato, vita e lavoro si incontrano. E spesso si fondono e confondono.
Sei metodica e disciplinata nel tuo lavoro?
Sono perfezionista, al limite della maniacalità (o, anche, oltre). Posso stare per un tempo infinito su una frase o su un colore, su una virgola o su una linea, scrivendo e riscrivendo, dipingendo e ridipingendo. “Penelope era una principiante, in confronto”, mi hanno detto. Ma non ho mai degli orari precisi. E degli orari spesso mi dimentico, mentre lavoro. Forse è anche per questo che sono spesso in ritardo: come attenuante vale, vero?
Parole e immagini come si intrecciano nei tuoi romanzi e opere visive?
È (quasi) un lavoro di traduzione: pensieri e sentimenti, nati da spunti o suggestioni, danno vita a storie che racconto o illustro utilizzando la parola o l’immagine. Ogni storia dipinge un quadro e ogni quadro racconta una storia. Mantenendo sempre uno stile contemporaneo. Che è stato definito minimalista, pop e metropolitano.
Il tuo ecclettismo mentale è una virtù o un limite per i tuoi galleristi o collezionisti?
È, più che altro, una caratteristica del mio lavoro. C’è chi lo apprezza. E chi no: ma questi non possono essere né i miei galleristi né i miei collezionisti. D’altronde, non si può piacere a tutti. Ma è anche vero che non tutti piacciono a noi. Il problema, di solito, sorge nella mancanza di reciprocità.

Hai pubblicato diversi libri di racconti e romanzi, tra i tanti editati quale ti ha maggiormente delusa e perché?
Vera delusione, no. Stupore, a volte, sì. Tipo quando ho trovato il mio primo romanzo “Media chiara e noccioline” esposto in una libreria -nel reparto dei comici- accanto a “Sola come un gambo di sedano” di Luciana Littizzetto. Forse per un’assonanza gastronomica. Io pensavo di aver scritto un dramma. «E’ un mondo difficile», cantava Tonino Carotone. “E vita intensa. Felicità a momenti. E futuro incerto”, aggiungeva.
Di che cosa parla il tuo ultimo romanzo Maneggiare con cura, pubblicato nel 2020?
Della società contemporanea, definita da Bauman la “società liquida”. Dove il posto fisso e l’amore eterno ormai sono spesso ricordi -talvolta incubi, talvolta sogni- più che realtà. Quasi tutto appare in movimento, precario, da (re)inventare. Attuando anche degli strappi con il passato. E con le aspettative altrui. Per essere il più possibile aderenti a se stessi, a ciò che si è o che si vuole diventare. È quello che fa, in primis, la protagonista “occulta” del romanzo: una donna indiana emigrata in Italia che non corrisponde a nessun tipo di stereotipo.
Quali mostre ti hanno delusa e quali invece appagata?
Ci sono state mostre, così come presentazioni vuote che disorientano . Altre strapiene, con un vortice di persone e di emozioni. Altre necessarie perché vitali, come l’ultima che ho tenuto a Milano nella Galleria Gli Eroici Furori, curata da Silvia Agliotti-realizzata in collaborazione con Arca e con il contributo di Moleskine Foundation- intitolata “Ogni Quadro è un racconto (e viceversa)”
Quali sono i soggetti preferiti delle tue opere pittoriche?
Argomenti legati al contemporaneo, alle sue complessità e alle sue contraddizioni, che toccano tematiche intime e problematiche sociali, passando dall’amore al lavoro: che poi dovrebbero essere i capisaldi della vita, che non sempre sono così saldi però.
Che materiali utilizzi nei tuoi dipinti?
Dipingo ad acrilico su una base materica, che riveste la tela. A seconda delle occasioni utilizzo la sabbia, la pomice, gli scontrini, i giornali o i tessuti, italiani o indiani. La sabbia e la pomice mi permettono di creare un fondo simile a un muro, che richiama quello dei murales. Uso gli scontrini quando affronto argomenti legati alla mercificazione, anche dei sentimenti, mentre i ritagli di giornali italiani trattano il tema dipinto nel quadro. I tessuti o i giornali indiani, infine, li scelgo per assonanza o per contrasto, a livello estetico o simbolico, con il dipinto.
Nella vita hai fatto mille mestieri, più volte hai dichiarato che il più divertente è stato quello di barista, perché? Oggi lo rifaresti in quale città?
Non era solo il mestiere. Era soprattutto il luogo: lo Spirit in via Maiocchi, a Milano. Che era un luogo speciale: come lo erano i due soci che l’avevano creato, la gente che lo frequentava e le relazioni che si creavano. Lì, tra l’altro, ho conosciuto il padre di mio figlio. Non so se avrei potuto fare la barista altrove. E non so se lo rifarei. Anche se le attività fisiche –quasi meccaniche- mi permettono di pensare in un altro modo. Capita pure quando vado a correre, pedalo o faccio le pulizie. È in quei momenti che a volte, senza volerlo, mi vengono idee impreviste, che poi magari mi serviranno per scrivere o dipingere.
Sei diventata madre giovanissima per scelta o per caso?
Ehm: giovanissima forse no. Avevo 34 anni: che per alcuni è già primipara attempata. Comunque io mi sentivo giovanissima. Ma quel problema della differenza tra l’età anagrafica e l’età percepita mi attanaglia da un po’. In ogni caso pensavo di chiamare mio figlio “Non ti preoccupare ho tutto sotto controllo”: la frase che mi ha detto suo padre mentre, a quanto pare, lo stavamo concependo. Sempre suo padre, quando abbiamo capito che evidentemente non era tutto sotto controllo, mi ha proposto di chiamarlo Ruben. Ho accettato. Mi piaceva il nome. Solo dopo aver firmato i documenti mi ha chiesto “Ma tu sai chi è Ruben Sosa?”. E, no: non lo sapevo. Ora però lo so: era un giocatore dell’Inter. Nemmeno un fenomeno.
Come è stato crescere un figlio senza rinunciare a te stessa , continuando a scrivere e dipingere?
È stato naturale: scrivevo e dipingevo di notte, quando dormiva, oppure di giorno, quando giocava. Vita e lavoro, allora come adesso, si mischiavano. E spesso la vita è stata -ed è- spunto o stimolo per il lavoro. Da un episodio accaduto con lui, quando mi hanno scambiata per la sua baby-sitter, è nato il racconto per bambini “Questa non è una baby-sitter”. Tra l’altro io non ho mai voluto che avesse una baby-sitter, ma ho ringraziato l’asilo. E soprattutto i miei genitori, da cui lo portavo quasi tutti i fine settimana: per ritagliarmi del tempo esclusivamente per me, fosse solo per andare a ballare. “Balliamo sul mondo”, cantava Ligabue. Ma anche sulla maternità, almeno ogni tanto, aggiungerei.
Hai avuto uomini che ti hanno supportata, incentivata e stimolata nel tuo lavoro oppure ostacolata ?
“Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”: ecco, in questa frase di Joseph Conrad mi ci ritrovo parecchio.

Ricordi la tua prima mostra, cosa ti ha stupito di quella prima esperienza?
Era una collettiva: l’avevo organizzata nello scantinato dello Spirit. Ricordo la frase di Rino, uno dei due soci del locale: “Dipingi”, mi ha detto, “sei brava”, ha continuato. “E, soprattutto, mi pare che tua sia meno pericolosa di quando scrivi”, ha concluso.
Qual è il tuo pregio e il peggior difetto ?
È che io spesso confondo pregi e difetti. Ricordo ancora quando ho detto a un mio fidanzato “E quindi è merito mio se ti è venuta l’emicrania?” e lui mi ha risposto “Non si dice merito, si dice colpa”. Sospetto sia sempre questione di punti di vista.
Hai un rapporto solidale diciamo di “sorellanza”, oppure sei competitiva e ambiziosa ?
Se ambiziosa significa ambire, ovvero desiderare, sì: desidero, pure svariate cose. Ma non competitiva. Alla competizione preferisco la collaborazione. E considero l’amicizia una sorta di religione, da non tradire. Un approccio un po’ rigido, che probabilmente dovrei ammorbidire. Ho qualche problema con le sfumature, mi capita la stessa cosa quando dipingo: le evito. A differenza di quando scrivo: i miei personaggi vivono di e tra sfumature. Nei libri riesco a indagarle e raccontarle. Nella vita mi è difficile gestirle e accettarle.
In quale altra città, potendo scegliere vivresti attualmente?
Ho sempre desiderato vivere in una città sul mare, al caldo (o, per lo meno, non al freddo). In realtà non mi sono mai mossa da Milano, dove il mare proprio non c’è e dove non fa sempre caldo. “Non capisco perché continuano a definirti artista migrante: tu non hai fatto nemmeno l’Erasmus”, mi aveva detto mia madre. Da Milano in realtà non me ne andrei nemmeno ora. Il posto in cui si vive non è per me solo uno spazio geografico ma è soprattutto un luogo emotivo, fatto di rapporti e di affetti. Questo mi ha sempre legata a Milano. Nonostante la città stia diventando sempre più esclusiva, e quindi meno inclusiva. Soprattutto a livello economico. Per adesso cerco di “starci dentro”, sperando di non esserne sbattuta fuori. Tipo Paperino dal deposito di Paperone. Cosa che per altro sta capitando a sempre più persone.
Cosa ti spinge a produrre Arte?
Il desiderio di indagare, attraverso le parole e le immagini, pensieri e sentimenti spesso mutevoli e complessi, trasformandoli in storie. Per parlare della società contemporanea. Del vissuto. Della vita.
Hai mai utilizzato l’Intelligenza Artificiale, se sì in quale libro o dipinto?
Io e la tecnologia siamo separate alla nascita, mi sa: per ora non vedo possibilità di riconciliazione.
Che rapporto hai con il tempo che passa , temi la vecchiaia ?
Temo il declino. E la perdita, soprattutto dell’indipendenza. Vorrei fermarmi prima. Prima della badante, per esempio. Anche se talvolta penso di averne bisogno già ora: tipo quando metto la crema per le mani sullo spazzolino, al posto del dentifricio.
Credi in una vita oltre la morte ?
Lo scopriremo solo morendo. Ma se mi chiedessero di progettare un aldilà creerei un Paese dei balocchi. Una fiaba. Dove tutti hanno quello che desiderano. E vivono felici e contenti. Realizzando il perfetto “the end”. Solo che se uno ha tutto quello che desidera poi c’è il forte rischio che si annoi. Quindi mi sa che mi toccherebbe rivedere il progetto.
A quale opera stai lavorando ?
Alle risposte a queste domande: ti assicuro, è un lavoro (sorride). Appena lo termino torno al nuovo quadro e al nuovo romanzo. Il primo è un omaggio a David Lynch, il secondo a mio padre: due persone che, in diverso modo e peso, hanno influenzato il mio passato. E il mio immaginario. Quindi il presente, che in questo caso diventa rielaborazione di un’eredità. Dal 7 al 14 marzo, invece, parteciperò con un’installazione audiovisiva sulle donne alla mostra-evento “Dal Femminile al Plurale” ideata da Ilaria Centola ed Elena Riva, che si terrà presso la Villa Bagatti Valsecchi di Varedo (MB). Sarà la mia prima installazione audiovisiva.
Un sogno nel cassetto non realizzato?
L’equilibrio: che ricerco nelle opere. Ma che fatico a trovare nella vita.