“Non ho mai cercato la gloria col politicamente corretto”

0

“Enrico dopo una lunga gavetta è riuscito finalmente ad imporsi alle sue condizioni, stravolgendo logiche consunte e rifiutando l’idiozia massificata della musica leggera italiana: chi ha mai usato il termine Coup de foudre’ in una canzone di Sanremo?”

Il critico Federico Guglielmi, nel 1986, sulle pagine della rivista Il Mucchio Selvaggio raccontava così il salto cantautoriale del frontman biondo platino dei Decibel, fenomeno punk tutto italiano.

Sono passati quasi quarant’anni da quella definizione ed Enrico Ruggeri resta, nel panorama della musica tricolore, un artista meravigliosamente anomalo. Insofferente ai meccanismi del senso comune e alle pericolose derive di un certo neopuritanesimo. Da sempre refrattario ad un conformismo linguistico  che oggi tende a levigare, appiattire, le idee e le loro espressioni nel nome del rispetto dell’altrui sensibilità. Sembra che Ruggeri paghi la totale libertà, con un’esclusione dai toni formali quanto intransigente.

Un dannunzianesimo pop che affonda inevitabilmente le sue radici nel fenomeno che, alla fine degli anni Settanta, produsse uno scossone clamoroso nella cultura, nella moda, nella comunicazione e soprattutto nella musica. Una ribellione in nome del rock che ancora oggi, per Ruggeri, resta un punto fermo del suo essere profondamente artista: “Quando io ero ragazzo i cantanti cambiavano il mondo. Ora non è più così”. E lo racconta bene nel suo nuovo concept album Rivoluzione (uscito il 18 marzo con Anyway Music). Alessandro, Glam bang, Non sparate sul cantante, La fine del mondo, Che ne sarà di noi. Undici brani che spaziano tra il pop e il rock, un intenso racconto di formazione. Un poema epico su una generazione al giro di boa dei sessant’anni che non ha alcuna intenzione di arrendersi. I grandi ideali traditi, la ribellione, la celebrazione del vuoto in cui i giovani si sentivano rinchiusi alla fine degli anni Settanta. Ma la vera “rivoluzione” è uno stato dell’anima che riguarda ognuno di noi.

Prima o poi tutti affrontiamo una rivoluzione?

Ogni vita è una rivoluzione. Quello che racconto nell’album è il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Parto dalla mia personale esperienza, non a caso la copertina ritrae la foto della mia classe della quarta liceo, l’anno scolastico ’73/74 al Berchet di Milano. Nel disco ci sono quei ragazzi, questa è la rivoluzione di cui parlo. Non le barricate o i movimenti dissidenti ma le grandi speranze che avevamo con la loro forza rivoluzionaria.

La foto risale agli anni degli Champagne Molotov, la sua prima band Punk?

Esattamente, è stata la mia adolescenza. Erano gli anni in cui ci chiudevamo in cantina per fare la nostra musica senza avere troppo cura di ciò che ci accadeva intorno. I picchetti, le botte, le molotov, le assemblee, i collettivi fuggivamo da tutto questo.

Però attraverso la musica, di contestazioni lei ne ha fatte, negli anni. Penso ai brani censurati degli Champagne Molotov

La prima musica che ho fatto era il punk, che per definizione era ribellione pura. Un genere di denuncia, di nichilismo, un profondo senso di sfiducia. Alla fine degli anni Settanta vivevamo uno stato di disillusione, eravamo la cosiddetta Lost Generation.

E questa nuova generazione di ventenni come la definirebbe?

Viviamo in una società completamente diversa. All’epoca io ho iniziato a fare musica solo perché mi faceva stare bene, per trovare la mia dimensione. Non suonavo perché sognavo di diventare famoso. Ed era per tutti così, tutti quelli che suonavano con me. Oggi invece i giovani che vogliono fare musica passano più tempo su Instagram. Diventare ricchi e famosi è ormai una qualità morale. Si punta più a potenziare l’immagine che la propria musica.

I cantanti sono sempre più influencer, di contro lei ha scritto un vero e proprio decalogo della buona musica

Sì, c’è molta piaggeria nella musica di oggi. C’è troppa paura di rischiare di perdere consensi. Invece, ci sono regole morali che un cantante, a mio avviso, deve sempre seguire. E poi, c’è un problema di lessico troppo povero, traballante, si usano sempre le stesse cinquanta parole. La differenza non lo fa il tema ma come viene trattato.

In Non sparate sul cantante torna a riflettere sul ruolo degli artisti nella nostra società

Credo che il compito di un artista sia proprio quello di sollecitare riflessioni e non essere la cassa di risonanza del potere. Troppo spesso gli artisti oggi, seguono la strada più sicura del politicamente corretto. Bisogna tenere le antenne aperte sul mondo, questo rende l’artista una guida. E’ la capacità di essere recettivo nei confronti delle cose che sono nell’aria.

In questo ci si non può esimere dall’uso dei social per lanciare delle provocazioni. Come l’ultima polemica su Blanco che lo ha visto protagonista

Ogni tanto sui social lancio delle riflessioni, delle prove d’intelligenza. Nel caso di Blanco non ho parlato di molestie ma mi sono soffermato sul rapporto tra il cantante e il suo pubblico. Ognuno è responsabile di quello che avviene sul palco, nessuno si sognerebbe di toccare Paolo Conti perché il suo atteggiamento è tale per cui, a nessun fan, verrebbe mai in mente di farlo.

Anche le sue riflessioni sull’uso prolungato della mascherina hanno fatto discutere

Io parlo di vita e ne ho parlato da marzo 2020. Non si può rinunciare a vivere per la paura di morire. L’uomo si è evoluto proprio esorcizzando il timore della morte e delle malattie. E’ un concetto universale che va oltre i DPCM che abbiamo ascoltato per due anni.

Questo album è nato a distanza di tre anni da Alma. In un periodo difficile, forse ancora non riusciamo ad elaborare quello che ci è accaduto

Ho fatto tesoro di questo periodo di chiusura forzata. Nel primo lockdown ho scritto il mio romanzo, Un gioco da ragazzi. Lavoravo tanto ed ero molto concentrato. Successivamente mi sono dedicato a questo nuovo album, senza scadenze e senza fretta. Questo ha giovato alle riflessioni che sono emerse in stante ore passate in studio di registrazione. Non ho raccontato direttamente quello che abbiamo vissuto ma inconsciamente credo di aver affrontato la questione. Ho usato parole nei miei testi come “terapia intensiva” o “che brutta fine le mascherine” che richiamano questo periodo. Siamo inevitabilmente influenzati da ciò che ci è successo.

L’amore verso la Patria, verso la propria identità è un sentimento che sembra essersi sopito nelle nuove generazioni.

Io sono molto legato alla mia città, Milano. Un luogo frutto di un’identità multipla, accogliente. E’ un territorio da osservare, molto interessante. Ma io sono soprattutto legato all’Italia, al mio Paese. Un’immensa e meravigliosa occasione mancata. Abbiamo un patrimonio culturale, artistico e storico che il mondo ci invidia. Ma manchiamo di senso di appartenenza e di difesa nei nostri valori.

Rivoluzione diventa un tour e quest’estate tornerà a incontrare il suo pubblico

Sono reduce da alcune tournée nei teatri ma sono state esperienze mortificate dall’uso della mascherina. Non riuscivo a percepire cosa vivessero realmente gli spettatori. Finalmente, abbiamo voglia di ritrovarci di riappropriarci del tempo e dello spazio. Un tour in cui godrò a pieno dell’emozione di condividere l’amore per la musica.

ABBONATI A CULTURAIDENTITA’