Andrea Martinelli e i volti della memoria: la pittura come auto-psicoanalisi

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L’arte ha bisogno di raccontare qualcosa di forte, viscerale, una galassia di emozioni che provenga dalla parte più recondita dell’autore e che si perda, attraverso la realizzazione, nel flusso incosciente che trasforma ciò che è figlio dello spirito in qualcosa di terreno, di tangibile. Le opere del pittore Andrea Martinelli mostrano i punti di contatto con la grande tradizione del crudo realismo visivo per essere però coniugata ad una dimensione di reminiscenza in cui si manifestano le ombre di fantasmi che riaffiorano come angeli protettori di un eterno silenzio. Lo stesso religioso silenzio che ogni spettatore acquisisce stando dinanzi ad un’opera di questo pittore, che nell’arte ha trovato il varco per un’auto-psicoanalisi e che degli occhi delle figure ritratte ne ha fatto il proprio sguardo.

Sei un ritrattista conosciuto prevalentemente per i primi piani in cui affidi allo spettatore il compito di farsi rapire da uno sguardo. Quali sono i punti chiave della tua opera?

Il punto chiave è la rappresentazione dell’uomo. Ho cercato in tutti questi anni di raccontare l’essere umano attraverso la sua storia e credo non ci sia cosa migliore di un volto per raccontare il percorso di ognuno di noi. Il punto focale è sempre stato quello, raccontare le storie attraverso i volti di questi personaggi che sono o figure vicine a me o che incontro nella mia vita e che, in qualche modo, mi rimandano sempre a  qualcosa della mia vita passata. Ognuno di loro è ciò che io chiamo il volto della memoria.

Cos’è in realtà un volto per te? 

 Ho esordito con una mostra dal titolo Senescenze, correva l’anno 1993 e il titolo credo che dica già tutto, si trattava di una lunga serie di ritratti di volti di anziani. L’idea è nata dopo la morte del mio amato nonno a cui ero molto legato e questa sua scomparsa è stata per me talmente dolorosa e lancinante, era la prima visione della morte che ho avuto nella mia vita ed avevo 26 anni, che si è innescato questo desiderio in me di ricercarlo attraverso gli occhi degli altri ma la cosa più bella è che alla fine attraverso gli occhi degli altri ho trovato me stesso. Sono molto interessato ad entrare nella vita degli altri anche come specchio, perché alla fine ho scoperto che quando racconto un personaggio attraverso il disegno è in realtà come se raccontassi me stesso. Quindi, attraverso questa mia visione, credo che nessuno meglio di un vecchio possa raccontare la vita attraverso il proprio volto. Ad esempio i solchi sulla pelle anziana sono come delle vie, dei solchi che queste persone hanno raccolto durante l’arco del proprio cammino e ciò mi affascina molto e quando li dipingo mi sento come un chirurgo e a volte queste rughe le aumento proprio per dare forza al racconto. Direi, inoltre, che fondamentalmente sento il bisogno di raccontare storie cariche di mistero, infatti dietro questi volti ci sono sempre delle ombre forti, tant’è che la mia ultima mostra antologica organizzata a Carrara due anni fa s’intitolava Storie di uomini e di ombre proprio perché a volte queste ombre si trasformano in vere  e proprie figure, come dei fantasmi, che non sono altro che i doppi o i tripli della stessa persona che rappresento. In realtà ne sono quasi gli angeli custodi. La memoria è un altro termine che utilizzo spesso nei titoli delle mie opere, perché in fondo dipingere un vecchio vuol dire raccontare una memoria, un camino acceso accanto al quale mi riscaldo.

 Definiresti la tua pittura per certi versi psicoanalitica o addirittura di auto-psicoanalisi?

Assolutamente si, credo siano degli autoritratti. Da quando cominciai questo lungo percorso ad oggi non è mai cambiata la mia esigenza di dialogare con me stesso attraverso l’arte, infatti questi personaggi non li ritraggo mai dal vero ma attraverso delle immagini fotografiche che io stesso realizzo. Faccio questo perché sono convinto che se avessi la figura nello studio davanti a me provocherebbe al mio interno una serie di emozioni che non saprei controllare, invece attraverso l’immagine fotografata posso, lentamente, immergermi dentro me stesso e questi occhi che guardano in realtà sono i miei ed è una cosa che viene dal profondo, dal voler raccontare le mie inquietudini, le mie angosce o le mie gioie attraverso il volto di qualcun altro. Inoltre, credo che per rendere vivo un volto occorrano quattro elementi fondamentali che sono: l’idea della vita, l’amore, la morte e la presenza di Dio, la commistione di tutto questo genera le mie opere e le rende vere. Infatti chi si trova dinanzi a questi volti ne rimane colpito e spesso addirittura turbato proprio per la verità che ne fuoriesce. A volte non è facile accogliere questi volti così forti. Per cui si, è un’auto-psicoanalisi e attraverso le immersioni che faccio nel mio studio  riesco a stare bene e a reagire ai fantasmi che la notte mi percorrono.

Secondo te l’arte visiva può rendere vivo ciò che è morto?

Certo. Ma non c’è niente di più maestoso della raffigurazione di un volto che non c’è più e soprattutto se è anonimo, infatti non dipingo mai personaggi regali ma bensì figure semplici, persone del popolo. Ad esempio mio nonno era soltanto mio nonno, ma attraverso il ritratto gli donato una maggiore grandezza rendendolo eterno. Una cosa che amo pensare è che questi ritratti continuino a vivere dopo la mia dipartita e che possano rimanere nel tempo e con loro tutte le emozioni che io, romanticamente, ho cecato di riportare su tela. Quado non ci sarò più le mie opere saranno più vive di prima.

Un tuo ricordo di Giovanni Testori?

Ho un ricordo meraviglioso di lui, anche se non ho avuto la possibilità di camminare al suo fianco per tanto tempo perché riuscì a vedere le mie opere poco prima della sua scomparsa. Lo conobbi nel 1987 a Firenze e  gli dissi che ero un pittore e che volevo fargli vedere il mio lavoro, lui amava molto la pittura della realtà. Alcuni anni dopo andai a Milano e feci recapitare nell’ospedale in cui era ricoverato la cartella con tutti i miei disegni e lui rimase molto colpito tant’è che chiese al gallerista al quale era legato di prepararne una grande mostra che avrebbe presentato ma purtroppo non fece in tempo. Ad ogni modo fu quell’input con cui riuscii poi ad entrare in questa galleria e così è cominciata la mia carriera. Nonostante il nostro breve rapporto, gli devo molto perché l’ho seguito tanto e per me il fatto che abbia apprezzato le mie opere è stato qualcosa di enorme. Amava molto la realtà sofferente e gli artisti che ne restituivano la forza, quindi per me è stato davvero un grande maestro.