Cosa succederebbe se dalla velocità sul grigio asfalto dei go kart si passasse al lento processo dell’immedesimazione attoriale? In quale punto si incontrerebbero i due orologi? A questa domanda è possibile rispondere con due parole, Gianmaria Martini. Egli è un attore irriverente, dal tratto anglosassone e lo sguardo da angelo caduto, tant’è vero che si è dimostrato nel tempo uno degli attori più capaci nell’interpretare personaggi controversi che sono dei capisaldi del teatro mondiale. Partito dalle tavole del palcoscenico, arriva al cinema con Romanzo di una strage, Diaz, The nest e in importanti serie-tv come 1992, 1993, Non uccidere 2, Un passo dal cielo 6.
Quanto pensi sia importante il lavoro sul corpo per un attore?
La grande difficoltà che s’incontra passando dal teatro alla macchina da presa è che quando sei sul palcoscenico il lavoro che fai sul corpo è palesemente utile, inoltre si è più liberi nello spazio scenico o almeno il più delle volte, a meno che non vi sono delle scelte precise su cui il movimento dev’essere più contenuto se non addirittura statico, come mi è capitato quando ho interpretato Prometeo. Per quanto riguarda il cinema, ho notato che il lavoro che fai sul corpo è fondamentale ugualmente, l’unica difficoltà è che devi spostare tutte forze energetiche sul viso, nel primo piano o nel piano americano. È ovvio che tutto il corpo è in movimento, ma il volto è quello che comunica di più. Quindi posso dirti che la partenza è uguale, ma si arriva in due mondi completamente diversi.
Hai recitato in numerosi spettacoli di grande successo, lavorando diverse volte con Valerio Binasco. Che ruolo ha avuto nella tua carriera?
Binasco è il regista che mi ha lanciato, perché io sono uscito dall’università molto tardi e con lui ho avuto il colpo di fulmine al terzo anno d’accademia, infatti poi ho cominciato a fare spettacoli sotto la sua guida. Secondo molti è il miglior regista teatrale nel panorama italico contemporaneo, soprattutto per quanto riguarda il lavoro con gli attori. Quindi lavorare con un grande come Valerio si è rivelato un trampolino di lancio, sia dal punto di vista artistico, ovviamente, che a livello interiore di autostima. Io ho tre maestri, Anna Laura Messeri che è la direttrice della Scuola di recitazione di Genova ed è colei che mi ha aperto un mondo, poi Valerio che mi ha fatto evolvere nel campo artistico ed infine una persona che per me è fondamentale si chiama Paolo Antonio Simioni ed è il mio actor coach.
Inoltre hai interpretato personaggi deformi, disturbanti, controversi come Caligola, Polinice o Calibano. Come si entra nella parte oscura dell’uomo?
In realtà abbastanza facilmente, l’oscurità l’abbiamo a portata di mano. In alcune zone è ovvio che è più complesso entrare per via di certi blocchi emotivi o morali così tanto sedimentati che sembrano quasi istintivi ma non lo sono perché si tratta in realtà di meccanismi psicologici che non ti fanno andare a toccare veramente una quantità di odio che non avresti mai immaginato potesse esistere o desiderare di uccidere. Questi personaggi che hai citato sono estremamente complessi e disturbanti, basti pensare a Polinice che è un pazzo psicopatico che vuole radere al suolo la stessa città natale, però in realtà mettere le mani nel fango oscuro non è tanto più difficile del metterle nella luce. Questi personaggi, che hanno un lato così evidentemente oscuro, hanno come controparte una dimensione di purezza altissima, solo che è una purezza deformata a tal punto da dilaniare il loro animo. Per esempio Caligola è un Gesù Cristo che se non avesse subito determinati traumi non sarebbe poi divenuto quel mostro capace di massacrare qualunque cosa e questo ci fa capire che i personaggi oscuri sono veramente affascinanti da analizzare nel profondo in quanto non sono soltanto degli stronzi psicopatici, ma sono talmente ricchi interiormente da diventare delle figure emblematiche del teatro. Per assurdo la cosa più difficile è intercettare le parti luminose di questi personaggi ed è quello che da un valore aggiunto sul risultato attoriale. Però per conoscere la luce devi prima sprofondare nel buio.
Prima di diventare attore sei stato un pilota di go kart ma un incidente ti è costato tutto. Quanto ha influito sul piano attoriale quel periodo di buio?
Parecchio. Non saprei quantificarlo. So solo che era la mia vita, il mio sogno e da quando avevo tredici anni era l’unica cosa che m’interessava. Lì era racchiuso il 90% della mia esistenza e a diciannove anni, quando dovetti chiudere per sempre con quel mondo fu qualcosa di scioccante. Ho passato momenti di grandissimo buio in cui non riuscivo a vedere il domani, ero iscritto all’università ma non ci andavo, vivevo una vita sregolata alla bohémien. La verità era che non riuscivo a colmare quel vuoto, quella mancanza di senso che in realtà ho sempre percepito nella mia vita dato il mio atteggiamento esistenzialista ma evidentemente c’era qualcosa di nascosto, non so ancora cosa, che mi mandava avanti. Il fatto di aver sofferto così tanto mi ha dato quella marcia in più nel momento in cui ho trovato lo sportello dove veicolare quel dolore, quella sofferenza. Il carburante della recitazione è spesso dato anche da queste cadute. Una cosa importante che mi ha donato l’automobilismo è il sangue freddo, per cui non sono un attore che prima di entrare in scena va nel panico. Sicuramente il fatto essere stato abituato sin da ragazzino a gestire delle quote di tensione veramente alte mi ha aiutato molto e anche oggi riesco ad avere un approccio meno turbolento con l’ansia da prestazione.
Credi nella libertà di espressione nell’arte?
L’artista se non insegue una propria libertà finisce nel lato oscuro. Quindi credo nell’obbligo della libertà di espressione, sempre.