Andrea Cavalletto, così ho vestito “Il cattivo poeta”

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Luchino Visconti, enorme regista del cinema e del teatro italiano, sosteneva che l’abbigliamento era il mezzo con cui l’attore entrava nel personaggio. Visconti, l’ultimo decadentista italiano autore del film “Il Gattopardo”, sarebbe fiero di Andrea Cavalletto, costumista contemporaneo che nel cinema si è insediato con eleganza e buon gusto come il suo maestro, il leggendario Piero Tosi, facendo tesoro della grande cultura del nostro paese nella ricercatezza del tessuto che secondo la sua visione rappresenterebbe la seconda pelle d’un attore. Cavalletto è uno degli artigiani più straordinari del nuovo cinema italiano, come testimoniano i vari riconoscimenti ricevuti per pellicole che sono già cult, una su tutte Martin Eden.

Per un attore il costumista, come il truccatore, è una fondamentale porta d’accesso verso il personaggio. Quanto credi influisca il tuo lavoro sul risultato attoriale?
Il mio è un lavoro fatto di collaborazione che si fa insieme ad un regista, uno scenografo, un truccatore ma si fa soprattutto insieme ad un attore. Io credo che alla fine il costume, come il trucco, sia il primo passo che l’attore fa per divenire altro da sé, trasformandosi in un personaggio. Io provengo dalla grande scuola di Piero Tosi, sono stato un suo allievo e ho avuto la fortuna di frequentarlo fino all’ultimo e quindi arrivo da un mondo che ha la concezione che il costume sia un elemento fondamentale, vissuto assieme all’attore come una seconda pelle. Il rapporto con gli attori durante il mio percorso è sempre stato utilissimo perché l’attore aggiunge qualcosa, o a volte addirittura toglie e questo ti serve per ri-bilanciare lo stile di un personaggio. È davvero un lavoro fondamentale, grazie al mio maestro ho avuto l’occasione di sentire le storie dei grandi attori con cui ha lavorato, come Volonté, il quale era un camaleonte e di conseguenza viveva il costume del personaggio proprio come una seconda pelle, entrandoci totalmente. Inoltre io credo che la cosa importante nel cinema sia che i costumi funzionino, non basta che siano belli ma piuttosto devono essere funzionali al contesto e adatti all’attore/personaggio.

So che in tenera età eri già affascinato dal mondo del cinema. Ricordi qual è stata la folgorazione totale verso i costumi?
Guarda, io ho avuto dei genitori che mi hanno sempre fatto vedere bei film, soprattutto storici. La scintilla è scattata lì, dall’amore per la bellezza, per la storia e per un approccio nei riguardi di quest’ultima non tanto sulle date ma più per le vite di quei personaggi. Da quella fascinazione è partito il mio interesse per l’arte per diventare poi, alle superiori, un grande amore per cinematografia, ma senza una visione puramente strutturata, da esperto, soltanto il piacere di vedere qualcosa che fosse fatto bene.

Dopo aver frequentato l’Accademia delle belle arti, prosegui gli studi presso il Centro Sperimentale di cinematografia di Roma. Com’è stato il provino d’ammissione?
Furono tre prove di selezione. La prima consisteva nell’inviare il proprio materiale, la seconda invece era una settimana di prove ad un Festival di cinema e costume che da qualche anno non esiste più, e l’ultima prova si svolgeva a Roma e ci si doveva preparare sia per la scenografia che per il costume. La selezione devo dire che è stata dura, le domande erano tante e i posti erano sei. Io ho anche insegnato al Centro e quindi mi rendo conto che è difficile selezionare dei ragazzi, bisogna intuire una predisposizione nello studente che arriva, più che delle effettive capacità che in quel momento sono in uno stato embrionale.

Cosa si prova nel poter dire di essere stato allievo di un genio come Piero Tosi? E quanto è importante oggi riscoprire e valorizzare i veri maestri?
È fondamentale. Per me è stata una gioia ed una fortuna enorme aver incontrato un genio come Tosi, un uomo di una cultura profonda. Col passare del tempo mi rendo conto di quanto il maestro abbia dato al cinema italiano e non solo, è stato un grande artista e aver avuto quel tipo di incontro è un tesoro che è giusto si tramandi con le nuove generazioni. A lui si deve il cambiamento radicale dell’approccio al costume cinematografico, sicuramente è stato il più grande di tutti. Ha rappresentato uno spartiacque, ci sono due visioni differenti tra il prima e il dopo Piero Tosi. Questo non è da tutti e io sono fiero di essere stato al suo fianco. È importantissimo valorizzare i maestri, questa è un’epoca in cui ciò che ci ha preceduto spaventa ma io credo che dinanzi a queste figure non bisogna aver timore, non devono essere vissuti come un limite anzi bisogna tener conto del loro insegnamento e farne un motore di propulsione per arrivare a qualcosa di nuovo facendo in modo che quelle conoscenze non siano il richiamo a tornare indietro. Se non conosci i grandi che ti hanno preceduto non puoi pensare di fare qualcosa di nuovo, anche perché si scade in una banalità spicciola. Questo è un lavoro che si fa rubando, incamerando le immagini del passato per evocarle senza copiarle banalmente

Ultimamente hai lavorato a due film di grande impatto, Martin Eden e Il cattivo poeta, in cui i costumi sembrava quasi che parlassero. Che tipo di approccio hai avuto?
Sono stati due approcci diversi. Con Gianluca Jodice (Il cattivo poeta) abbiamo deciso di partire dalla verità di quel momento, in maniera filologica, poi abbiamo avuto la fortuna di girare all’interno del Vittoriale e durante i sopralluoghi Giordano Bruno Guerri, che ne è il direttore, è stato così gentile da aprirmi il guardaroba di d’Annunzio, questo è stato fondamentale. Invece con Pietro Marcello (Martin Eden) l’approccio è stato totalmente diverso perché mi ha detto fin da subito che avrebbe voluto giocare con il repertorio, quindi c’era la possibilità che il film fosse un attraversamento della storia del novecento, inoltre mi disse una cosa: “Voglio prendere Martin e buttarlo in un vicolo di Napoli in mezzo alla gente, facendo sentire il meno possibile la distanza tra lui e il popolo.”