Presentato in anteprima lo scorso settembre “U Scantu” del regista calabrese Daniele Suraci ha ottenuto successo di pubblico e critica in diversi festival internazionali conseguendo ben 7 premi. Tra i più recenti il Fabrique du Cinéma come miglior corto italiano «per l’abile regia e l’equilibrio narrativo con cui il film riesce a trasmettere, senza mai cadere nella retorica, inquietudini, insicurezze e vitalità di un bambino di dieci anni alla ricerca della figura paterna».
Una storia tutta calabrese, quella di Saro, ambientata nella tonnara di Palmi, paese d’origine di Suraci. Il giovane protagonista è chiamato ad affrontare una prova di coraggio in un momento difficile della sua vita in cui attende il ritorno del padre (Fabrizio Ferracane), smarrito dal dolore.
Lo raggiungo telefonicamente, io dalla mia scrivania, lui nel “recinto rosso” di Perugia, città dove vive da qualche anno.
Daniele Suraci, partiamo dal principio: come nasce U Scantu?
Ci sono tante componenti, una di queste è il luogo da dove provengo. C’era il desiderio di realizzare un lavoro che affrontasse delle specifiche tematiche e ci tenevo a farlo a Palmi, in questa tonnara. Parliamo di una particolare periferia della nostra terra che si differenzia dalla classica periferia cinematografica del cemento, dai luoghi desolati. Noi abbiamo questi sobborghi che riescono ad essere molto suggestivi. Nella mia testa quella era l’unica location possibile, perché quando si è legati ad un luogo ci si porta dietro anche una visione dell’infanzia. Forse l’idea nasce dal desiderio di dire delle cose, in un determinato momento della mia vita, attraverso il bagaglio culturale che mi porto dietro. Averlo realizzato lì ha fatto tantissimo.
Ho trovato nel suo corto delle assonanze con uno spettacolo teatrale scritto e diretto da Saverio Tavano e prodotto dalla compagnia calabrese Scenari Visibili, “Patres”, che racconta la storia di un giovane Telemaco di Calabria, cieco, in attesa che il padre ritorni dal mare. Una storia che nasce da una riflessione intono a “Il complesso di Telemaco” di Massimo Recalcati, in cui le nuove generazione appaiono sperdute tanto quanto i loro genitori.
Ho letto qualcosa in passato sul tema affrontato da Recalcati che si rifaceva a questa idea del padre desiderato e alla sua assenza. Non ho mai visto però lo spettacolo di cui parli e sono curioso di vederlo. Nella nostra storia forse cambiano un po’ i ruoli: ne “U Scantu” quello che non vede, il cieco, per certi aspetti è il padre. Nelle mie intenzioni iniziali c’era il desiderio di raccontare la presenza del padre come se fosse una fantasia di Saro, il giovane protagonista. Il desiderio della presenza di un padre che c’è, però non si vede, un po’ come l’orizzonte…
Ci sono due sentimenti in questo corto, la paura, da cui nasce il titolo, U’ scantu, e la solitudine, in cui si gioca continuamente tra presenze e assenze. Lei citava l’orizzonte: come l’orizzonte, che si vede ma non esiste, anche il padre di Saro si vede ma per il figlio è come se non esistesse…
È questo il senso del racconto. Essere genitore richiede una presenza continua e costante. I figli adolescenti sono i primi a risentire delle assenze. Volevo raccontare senza retorica l’idea di un’assenza. Raccontare quindi anche delle solitudini, un sentimento che viene vissuto in particolari momenti della vita, come l’adolescenza che sta vivendo Saro, dove non riesci a capire il mondo che ti circonda e allora cerchi un appiglio, una guida che ti aiuti a superare le cose complesse della vita. È l’assenza di questa guida a far nascere la paura, il disagio. La rabbia, la solitudine sono tutte conseguenze. È un po’ lo specchio di ciò che stiamo vivendo tutti. Abbandonati, senza una guida.
Ha lavorato con attori non professionisti, tra l’altro molto giovani, accanto a un professionista come Ferracane. Com’è stato?
Con Fabrizio abbiamo instaurato subito un ottimo rapporto, fatto in primis di discrezione. Questo è stato un punto di forza sia artistico che umano. Riuscire a tirare fuori alcune cose e lasciarlo fare in altre mi ha dato tanto. È un grande attore. Poi dall’altra parte avevo questi ragazzi che non avevano mai recitato. Con cinque ragazzini è automatico che si creino delle dinamiche anche all’interno del loro gruppo. Io ho intercettato queste dinamiche e le ho inserite all’interno del corto, le trovavo più spontanee, naturali. Loro poi credevano tantissimo a questa storia, per certi aspetti trascinavano anche me all’interno delle scene. Sono riusciti a stare in ascolto e dare quello che erano pronti a dare.
Cinema e pandemia…
Dal punto di vista artistico credo che quando si vivano delle disgrazie del genere un artista sia spinto a stimolare la propria fantasia. Dover dire diventa un bisogno, una necessità. Dal punto di vista dell’industria cinematografica nel complesso è un disastro. Sono un giovane regista che ha in progetto la sua opera prima e ad oggi non so qual è la prassi, quali sono i tempi, in questo nuovo mercato e in questo nuovo modo di fare i film. Ci sono indubbiamente anche cose positive: un cambiamento nell’arte c’è e non è mai negativo.
A proposito di opera prima: progetti futuri?
Sto già lavorando all’idea del lungometraggio. Ovviamente è un progetto ancora in fasce, non c’è una produzione, c’è solo un’idea. Lo sto scrivendo e spero che con l’aiuto della popolarità che ha riscontrato il corto nei festival mi venga data la possibilità di raccontare delle storie di una corposità maggiore.
Un’anticipazione?
È una storia ambientata sempre nella mia terra, in quel tipo di periferie. Siamo in un piccolo borgo di pescatori ma questa volta è una storia tutta al femminile. Torno in Calabria, nonostante le difficoltà che ci sono: basti pensare alla Film Commission in questo momento…