Festival Giffoni, 50 anni di innovazione: intervista a Claudio Gubitosi

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La frase di François Truffaut è il miglior biglietto da visita per il Giffoni Film Festival, quanto basta per capire il peso che ha assunto nel corso degli anni questa manifestazione indirizzata ai ragazzi e retta su di loro, un Festival che riesce ad essere locale e globale allo stesso tempo. Il Festival, oggi Giffoni Opportunity, è un’esperienza naturale per chi è appassionato di cinema, da bambino sono stato uno dei tanti giurati che partecipano ogni anno ed essendo un’ambiente che tutti, direttamente o indirettamente, vivevamo per la vicinanza cittadina, ai tempi era difficile capacitarsi della reale dimensione di questo Festival, uno dei più importanti tra quelli nati in Italia. All’alba dei cinquant’anni del Festival di Giffoni, contatto Claudio Gubitosi, direttore e fondatore, che appena diciottenne diede vita con mezzi di fortuna a quello che negli anni è diventato un polo internazionale.

Nel 1971 nasce il Giffoni film festival, ci può descrivere quella prima edizione? Quanto era diverso il primo film festival da quello che poi sarebbe diventato?

La primissima edizione non è paragonabile a ciò che è venuto dopo, si partiva da zero, in un comune dell’entroterra salernitano, Giffoni Valle Piana, che non contava più di diecimila abitanti. Alla base c’era un’idea, mezzi e film erano pochi, specialmente se pensiamo che ai tempi i film per bambini e ragazzi non godevano della considerazione di oggi. Quindi, nel ’71 si svolge in un contesto del tutto locale, con sacrifici e lavoro da parte mia e del ristretto gruppo organizzativo dell’epoca. Dal 1973 si può parlare di Festival, andiamo nelle scuole, iniziamo a spostarci nei comuni limitrofi fino alla città di Salerno, e andavamo lì durante il festival con dei cinemobili che ci prestava l’esercito italiano per fare le proiezioni, allestivi un palchetto e mettevi il lenzuolo su cui si proiettava. Da lì è stato un crescendo, ricordo con piacere quelle edizioni che però erano totalmente diverse da quello che sarebbe arrivato anni dopo. Da quella che all’epoca doveva essere una lettura giovanile del nostro territorio, l’idea è andata oltre, oltre i confini regionali, già dagli anni Ottanta arriva all’estero.

Proprio riguardo questo punto, come è riuscito il GFF, partito da un comune salernitano, a raggiungere l’eco internazionale di oggi?

Antonio, le idee non hanno confini. Il Festival si è evoluto dandosi una struttura sempre più precisa, e questa è stata la chiave per arrivare a spazi nuovi. Nel tempo, abbiamo impostato il nostro discorso su temi ben precisi: “Padri e figli”, “Il sogno”, “Il Viaggio… di trattava di un tema dominante per tutto l’anno, oggi parliamo di trilogie come quella dell’ambiente (“la terra”, “l’aria”, “l’acqua”) e ci sono delle cose che ci danno l’opportunità di aprirci molto di più. All’epoca, ad esempio, non c’erano le Masterclass, non c’erano gli spazi relativi agli adulti, insomma mille cose che oggi hanno reso possibile tutto questo. Pensa che da allora sono nate sette sezioni, da che ce n’era una sola nel ’71, perché allora tranne qualche sporadica esperienza nelle scuole elementari, il target erano i ragazzi delle medie, dalla quinta elementare alla terza media. Questo impegno molto forte degli anni precedenti è stato la base sulla quale le cose hanno dovuto stringere ed evolversi e creare delle sezioni ben precise. Già negli anni Ottanta con una forte determinazione e perseveranza si è passati da un’idea di sviluppo nell’ambito del proprio territorio a qualcosa di respiro internazionale. Come si sviluppa il Festival, si vanno a sviluppare anche una serie di relazioni per via di tutte le persone che venivano dall’estero con i loro film. Approdiamo a Vienna, poi a Berlino dove non avevo molte relazioni con il direttore del Festival che aveva anche una sezione per ragazzi quindi partì in maniera del tutto spontanea questa iniziativa, per noi delle epoche storiche. Da qui si cominciò ad andare in altre parti ancora, nacque in quel periodo il nostro rapporto con l’Albania, in un periodo in cui nessuno poteva andare in quel Paese, poi la nostra porta d’ingresso in America fu Miami tramite una direttrice che era venuta a Giffoni e da allora abbiamo collaborato, da lì siamo arrivati ad Hollywood, facendo Giffoni Hollywood per sette anni, poi in Australia e immagina cosa abbiamo fatto a Sidney, Melbourne, Adelaide. Allora c’è stata questa voglia di Giffoni di espandere la sua attività e di portare anche quella che è la capacità di impresa, culturale, di una regione come la Campania e di un Sud che riesce a fare delle cose oggi ammirate ed apprezzate in tutto il mondo. Oggi siamo presenti in ogni regione d’Italia, e da quelli che erano i pochi giorni di Festival degli anni Settanta siamo arrivati a produrre cinquecentoquaranta attività per tutto l’anno. Siamo passati da poche centinaia di giurati, tutti locali, a circa settemila dell’ultima edizione che vengono da cinquantaquattro Nazioni. Vedi piano piano, beh piano piano… cinquant’anni (ride), quest’idea si espansa e ha dimostrato che creare qualcosa in un paese che mancava di strutture e non era sotto i riflettori non è stato un ostacolo. La mancanza di appeal turistico, aeroporti, ristoranti o quant’altro non ci ha fermato, questo desiderio di fare grandi cose in una realtà piccola ha dimostrato che dove le cose non ce le hai le vai a costruire. Giffoni oggi ha molte strutture come la Cittadella del Cinema o la Multimedial Valley inaugurata due anni fa, e ancora si costruisce, si creeranno altre strutture specialmente per quanto riguarda il lavoro giovanile. Insomma, siamo passati da un’instabilità momentanea a una continuità e questo ha permesso di spostare l’idea creativa di Giffoni prima in altre regioni d’Italia e poi in tutto il mondo e allo stesso tempo di creare occupazione e favorire tutta l’area con la ricaduta economica che ne consegue guardando sempre a questa idea che nasce internazionale e continua ad essere mondiale. Abbiamo dimostrato, quando questi concetti non c’erano che il locale può essere globale.

Il Giffoni ha ospitato artisti internazionali importantissimi per la cultura pop, come ci siete arrivati? Ci può descrivere i primi approcci in questo senso?

Diciamo che ormai non li classifichiamo nemmeno come ospiti, ci teniamo a dare questo segno: cioè che ognuno quando viene qui è a casa, l’artista non deve avere lo stress di partecipare o l’impegno a presentare qualcosa. Nel 1982, la gente mi chiedeva come avessi convinto François Truffaut a venire, gli ho semplicemente scritto una lettera. Essendo Truffaut una persona molto seria, uno tra gli autori più arguti ma anche sensibili, per lui l’infanzia era qualcosa di estremamente importante, e alla mia lettera rispose con un telegramma ed è stato qui aa Giffoni con una semplicità estrema, estrema, zero divismi, ma zero totale. Era l’epoca in cui le persone si portavano la sedia da casa per assistere agli spettacoli, e lui godeva di questa semplicità. Venne con la sua compagna, Fanny Ardant, tre giorni fantastici e si trattò di un momento importante perché dopo quella lettera che tu hai citato è cambiata la vita del Festival, mi ci dedicai anima e corpo, seguirono momenti particolari anche di difficoltà economiche però c’è stata la costanza di non abbandonare questa idea. Nell’83 venne De Niro, parliamo degli anni successivi al terremoto dell’80, e proiettammo “Toro Scatenato”. Purtroppo, e dico purtroppo per ciò che ne conseguì, in un’intervista al Corriere della Sera disse di non voler andare al Festival di Venezia bensì a quello di Giffoni, la cosa ci mise un po’ contro tutti quanti e così mi inventai che uno dei motivi per cui volesse venire da noi, oltre alla raccolta fondi per il terremoto, era il voler riscoprire le sue origini natie e nessuno poté contestare perché si sapeva solo che fosse italoamericano ma non la provenienza. Per dieci anni i giornalisti hanno scritto che Robert De Niro era praticamente nato a Giffoni, per poi scoprire che in realtà era molisano. Quando vengono questi grandi talenti, è interessante vedere la loro nobiltà, la loro adesione e partecipazione, l’avere a che fare con i ragazzi, degli “spiriti in costruzione”, e anche fargli conoscere la realtà campana – penso a quando ci telefonavamo io e Meryl Streep che rimase incantata da Pompei, così come Oliver Stone che addirittura sosteneva di essere stato aggredito dagli spiriti di Pompei. Penso al grande Zeffirelli che aveva paura di salire sul palco, tutti molto semplici e nessuno se n’è fregato di dover venire a Giffoni, della sua dimensione di paese o quant’altro. In realtà tutto dipende dai punti di vista, anche a me sembrava all’inizio qualcosa di impossibile da fare, erano gli anni in cui c’era la tendenza al glamour, alla città, eppure i cortili, i panni appesi, tutte quelle immagini pittoresche hanno contribuito alla “voglia di paese” anche nei nostri ospiti. Giffoni ha fatto scuola nel mondo, e dimostra che le cose si possono fare e si possono fare bene, anche in un piccolo ambiente che nonostante le innovazioni che si sono seguite, le nuove strutture, non sono mai andate a deturpare il concetto di paese. Gorbaciov un altro elemento importante, perché viene da chiedersi cosa c’entrassero lui e la moglie con il cinema, ma io non mi sono mai voluto fermare al cinema. Il discorso era dare cose impossibili ai ragazzi, sono stato orgoglioso quando ho ricevuto la lettera di Gorbaciov che all’epoca era l’uomo più visto sulla scena internazionale, ai ragazzi abbiamo dato un pezzo di storia, gli si è materializzata la storia. E questo è già un Giffoni diverso che si apre ad altre realtà oltre quella cinematografica.

All’alba dei cinquant’anni, il GFF come ha affrontato l’emergenza Covid?

Io mi assumo la responsabilità di quello che dico quando sostengo che quest’anno rappresenta un’opportunità. Ne parlavo ieri in un intervento su Il Mattino, abbiamo vissuto e stiamo tutt’ora vivendo una tragedia sanitaria, ma l’idea di dimenticare il 2020 come una parentesi, penso alla copertina del Times che titola “dodici mesi da cancellare”, è sbagliata perché pensare di poter tornare ai ritmi e al modo di fare lavoro del 2019 è impossibile. È finita un’epoca, e la parola d’ordine è innovare. Partendo dal Giffoni, penso bisogni tornare ai valori, quei valori che hanno caratterizzato cinquant’anni di Festival, tornare artigiani e concepire un nuovo modo di fare impresa. Come possiamo pensare di avere lo stesso traffico di turisti e persone dell’anno scorso? Il 2021 segnerà un nuovo modo di agire e già da quest’anno il Giffoni ha agito nel senso di questa innovazione: siamo rimasti attivi per mesi, nel momento di lockdown abbiamo creato una app e trasmesso i nostri eventi in streaming con dieci milioni di visualizzazioni complessive. Appena si è potuto riaprire, nel rispetto delle norme siamo passati agli eventi in presenza con ospiti come Toni Servillo e Castellitto, per citarne alcuni. Il Festival viene da cinquant’anni di innovazione costante, e continueremo sempre su questa linea.