“Quanto ci sarebbe da dire è ordinario all’apparenza, ma nei fatti è un miracolo, quello compulsivo del generare e rigenerarsi“. E’ quanto afferma Marcello Fois in Stirpe, quindi, praticare l’attenzione e la pazienza, ascoltare e scoprire con l’esercizio, il mago che è in ognuno di noi.
Immortalando immagini surreali, tra pietas e durezza critica senza tralasciare il suo ideale di bellezza incondizionata e per certi versi granitica.
E così fa Angelo Raffaele Turetta, che tiene conto del carattere magico, la sua essenza di quel momento fugace che deve esser colto e tramandato, contribuendo a mantenere viva la memoria in questo tempo di mistificazioni e di revisioni storiche. La fotografia potrebbe restituire l’orgoglio e magari nutrire la speranza?
Angelo Raffaele Turetta inizia fotografando l’avanguardia teatrale degli anni 70-80. Dal 1982 lavora come ritrattista di scrittori, musicisti, artisti e come reporter seguendo specifici temi sociali di attualità nazionale e internazionale con una costante particolare attenzione alla città di Roma. La realizzazione di servizi come fotografo di scena lo ha portando a realizzare un ampio affresco sul cinema italiano, lavoro con cui ha vinto nel 2001 il primo premio (Art Section) del World Press Photo.
L’invito a partecipare a questo grande evento a Roma: MFR19 (Mostre Fotografiche Roma)?
L’ho raccolto con onore. Operazioni del genere ben vengano. Operazioni che si occupino di cultura, di persone e di creatività, soprattutto in una città morta come Roma. Che ben vengano queste piccole cose. Non che siano piccole, ma sono partecipate solo da una ristretta cerchia di persone che le frequentano e a cui interessano. L’educazione alla creatività comporta poi un amore per la Bellezza, ma anche una logica di vita più armonica. Bisognerebbe coinvolgere le scuole, dai più piccoli dunque. La fotografia è un linguaggio attualissimo e l’immagine in genere costituisce il 90% della comunicazione di tutti i ragazzi: parlano con l’immagine, comunicano tramite immagini come in alcuni social (instagram). Perché non insegnare questo linguaggio che come tale va conosciuto e capito, va studiato come una lingua straniera, qualcosa che ha delle regole e delle possibilità. Quando scopri come funziona si scoprono delle possibilità in più per evolvere un linguaggio e questo linguaggio è in costante evoluzione come in tutte le cose.

“La finzione coincide con la verità“. E la verità è quella della materia. Gli antichi dicevano: “Quanto più l’artista, il poeta riesce ad ingannarci e ad imprigionarci nelle reti delle sue bugie tanto più è bravo e degno di lode“. Cosa è finzione e cosa è verità?
Nella mia fotografia vi è una ricerca costante di sabotaggio della realtà. Credo che la fotografia sia una menzogna, è un’interpretazione del reale che comunque è costante e soggettivo. Trovo che la verità nella fotografia sia anche inutile. È più interessante vedere un punto di vista, un’interpretazione della realtà, non la realtà stessa. Deve lasciare intuire, far viaggiare il fruitore, far immaginare, non deve spiegare. Deve dare un’emozione ed essa è interpretabile in tanti modi. L’importante è che vi sia la capacità di tradurre la realtà in un’emozione.
Uno dei suoi scatti più belli è quello di Italo Calvino alla finestra, nel quale sembra di averti visto, scoperto. L’importanza della cultura per un fotografo e quindi un artista?
Lo sai che sei la prima persona che l’ha capito? Ti racconto questo. Ero a casa di Calvino, perché a quell’epoca volevo fare un viaggio dentro la cultura Italiana e cercavo di avere una serie di appuntamenti con degli scrittori, poeti, musicisti. E Calvino era una persona di una gran delicatezza, signorilità e gran gentilezza. Mentre stavamo sul suo terrazzo, ricevette una chiamata ed io gli dissi che l’avrei aspettato fuori. Quando finì la chiamata si affacciò dalla finestra che dava sul suo balcone e mi disse che potevamo andare avanti. Io, in quel momento, ho avuto un’illuminazione. Cioè ho visto “Il Marcovaldo”. Insomma, è questo che fa parte del fotografo. Purtroppo o per fortuna, non deve mai perdere l’emozione e l’istante che, come diceva Henry Cartier-Bresson, “l’istante definitivo è una frazione di secondo, poi non esiste più: o lo prendi o lo perdi”.
L’importanza dello sguardo che lei in un certo senso ammaestra, educa. La sua fotografia non è per tutti?
Lì è libera scelta. Secondo me fare fotografia è in qualche modo prendersi la responsabilità di fare cultura, come qualunque altro lato creativo, come il pittore, lo scrittore, il regista e tutte queste operazioni partono da una logica: la cultura e la contaminazione di culture. Infatti in una fotografia si può citare un film, una poesia, un pittore. Più potente è la conoscenza più potente sarà la possibilità di rimetterla dentro un’immagine. Certo che l’Arte “potrebbe” avere un ruolo importante nella capacità che si trasporta nel comportamento umano, come nell’eleganza, nella gentilezza, nell’armonia, nell’amore per la bellezza. E l’amore per la bellezza è qualcosa di collegato alla meraviglia e senza quest’ultima non c’è bellezza e quindi si richiude il cerchio.
L’immagine è l’esito di cosa? Di tecnica o di cuore?
Senza dubbio di cuore e la tecnica è la più grande trappola. Fare foto tecniche è la cosa più noiosa che si possa fare. È chiaro che la tecnica la devi conoscere. Quello che conta, invece, è la capacità di sfidare costantemente la tecnica, metterla a lavorare su livelli estremi di se stessa, per rompere ciò che offre la stessa tecnica, la realtà assoluta e la fedeltà di certe cose. La fedeltà va distrutta, va messa in discussione per creare “la curiosità” per vedere un qualcosa che non si vedrebbe altrimenti.

Ha seguito la polizia nelle zone a più alta densità criminale, documentando i cambiamenti sociali. Perché?
Fa parte di un lavoro, è un working progress che sta continuando anche ora. È un lavoro sulla città di Roma. Cerco di viaggiare in maniera trasversale, partendo dalle grandi feste private degli anni ’80 dell’alta borghesia, il gran divertimento, poi ho raccontato la strada seguendo la polizia. Ho sempre cercato di raccontare gli opposti. Ho raccontato il mondo dei travestiti che battevano a v.le de Coubertin, poverini, e poi i grandi travestimenti delle feste della borghesia come le feste da Moravia: divertimento e povertà. È un viaggio sulla città di Roma che sto facendo da tanti anni. Ciò che è interessante è il punto di vista che sta cambiando, è il livello di interpretazione, soprattutto del “reale”. Alla fine sto andando sempre più verso una logica di astrazione d’immagine.
Astratto nel reportage?
Vedi, anche lì subentra il “cuore”. Nelle foto con la polizia, con i senza tetto, vi è sempre stata una parte di pietas. Non ho mai spiattellato la violenza o il dolore. Mentre invece la grande borghesia romana degli anni ’80, mi è piaciuta attraversarla come accadeva alla borghesia tedesca degli anni ’20, con una cattiveria e ironia quasi politica.
I principi della fotografia?
È far vedere ciò che gli altri non vedono e farlo vedere in maniera diversa. Far vedere la realtà non ha senso. Conoscenza e approfondimento del linguaggio che stai usando. Tutti credono di fare fotografia. In un momento come questo, bisognerebbe insegnare la fotografia ai bambini come nuovo linguaggio. Insegnare un nuovo linguaggio dell’immagine come si insegna a scrivere o a parlare.
Come fotografo di scena. Cosa le trasmette e cosa desidera raccontare, perché la fotografia è un racconto.
Essendo la fotografia un racconto soggettivo, come già detto, col cinema ho una sorta di sindrome di F. Scott Fitzgerald, cioè che lavorava per loro ma li detestava. Ma per un motivo semplicissimo: il cinema è un qualcosa che ti offre, è un piatto già servito: una luce, una serie di atmosfere che sono ristrette nello spazio, ti offre della gente che è consapevole di essere ripresa con degli atteggiamenti e movimenti che siano armonici in quel contesto, per quell’obiettivo. Il discorso è cercare qualcosa anche se è come lavorare all’interno di una fabbrica, raccontando i suoi accadimenti, mi piacce stravolgerli sempre di più se hanno una dominante surreale. Mi piace raccontare dei piccoli dettagli del cinema che sono “il cinema”, che fanno parte dell’immaginario che nell’immaginario poi lavorandoci dentro scopri dei particolari che poi sono più piccoli e più interessanti, più simbolici.
Talento, passione e poi?
La cultura, l’umiltà e la “curiosità” che deve restare altissima. La curiosità è la chiave, essa fa scattare la passione, il talento. L’umiltà perché? Perche bisogna mettersi in discussione costantemente, un po’ come Michelangelo innanzi al suo Mosè. Mai essere soddisfatto al 100% bisogna spronarsi costantemente ad andare avanti e questo si chiama “ricerca” e “sperimentazione”
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