Lo avevamo visto a Milano allo storico Blue Note, in concerto lo scorso 28 novembre. Diceva: “Con l’arrivo del nuovo anno, camminando, camminando, riprendo il mio viaggio in musica: un viaggio che ormai non si ferma più, ma prosegue “ad libitum” cercando nuove soluzioni, tappa dopo tappa.” Il prossimo 29 marzo sarà la prima tapa del suo tour 2019: Ancona, Teatro Delle Muse. Lui è Angelo Branduardi e oggi compie 69 anni, come il Festival di Sanremo. Vi proponiamo questa sua intervista off, in cui ci parla con contagiosa nostalgia del grande Giorgio Faletti e che lui, che pure ha dedicato una canzone a Che Guevara, con la rivoluzione non ci va a pranzo…(Redazione)
Qualcuno, una volta, ha detto che Angelo Branduardi è come l’aglio: piace o non piace. Non ci sono vie di mezzo. Forse è vero. Certo è che questo moderno trovatore, da quarant’anni, gira l’Europa riempiendo piazze e teatri di appassionati, a cui non ha mai fatto mancare album sempre belli, mai uguali. In cui ci si può imbattere anche in brani inaspettati: come una straziante canzone su Ernesto “Che” Guevara.
Maestro, come è nata la canzone sul Che?
Non ho mai condiviso le idee di quello che fu definito “rivoluzionario di professione”, in particolare l’uso della violenza. Ricordo, però, lo stupore che ebbi nel leggere, nel ventennale della morte, l’ultima lettera che inviò ai genitori. Una lettera commovente, di grande amore filiale, da cui è nato il brano.
Lei non si è mai schierato politicamente, in un periodo, quello del suo esordio, in cui contava molto avere una tessera. Pensa che sia stato per lei limitante?
No, in effetti non appartenevo a scuole di pensiero preconcetto. Io avevo un’altra strada…
Se iniziasse oggi la sua carriera, come pensa andrebbe?
Non lo so, è impossibile dirlo. È un mondo molto diverso da quello dei miei inizi. Sicuramente non parteciperei mai a un talent show.
Lei si esibisce, da decenni, in Francia, Germania, Italia, Spagna. C’è differenza tra il pubblico delle varie nazioni?
Oggi no. Negli anni Settanta, invece, sì. Ricordo che rimasi quasi paralizzato dal silenzio e dall’attenzione del pubblico del mio primo concerto a Monaco di Baviera, abituato a quello italiano che era molto più “esuberante”, all’epoca.
Un episodio Off della sua carriera…
Non c’entra con la musica, ma mi viene in mente una cosa buffa: quando, all’inizio, facevo la comparsa alla Scala, durante il “Simon Boccanegra”, entrando con la lancia, tenuta troppo in alto, feci cadere tutta la scenografia.
Regala ai nostri lettori un ricordo di Giorgio Faletti, autore dei testi dell’album “Il dito e la Luna”?
Io e Giorgio ci eravamo conosciuti per caso ed eravamo diventati amici. In un periodo in cui era amareggiato perché alcune cose non andavano bene, gli dissi: perché non provi a scrivere qualcosa? Alcuni mesi dopo venne da me, a pranzo, a raccontarmi il romanzo che aveva scritto. Era “Io uccido”, e tutti sappiamo lo strepitoso successo che ha avuto. Da quel momento, prima che uscisse un libro, me lo veniva a raccontare. Era diventata una bellissima abitudine, interrotta, purtroppo, con la sua morte.