Abbiamo intervistato Giampaolo Rossi, classe 1966, consigliere Rai, già presidente di Rai Net per otto anni, esperto di comunicazione e scrupoloso osservatore dell’evoluzione dei linguaggi.
Quale potrebbe essere la chiave per rilanciare un vero pluralismo dell’informazione?
Il servizio pubblico radiotelevisivo ha una funzione importantissima in una moderna democrazia, che è quello di garantire che tutte le forme culturali possano avere rappresentanze. Il servizio pubblico lavora su queste basi, ogni linea culturale esistente deve avere voce, visibilità e presenza. Probabilmente in questi anni la Rai non ha svolto appieno questo lavoro: credo che una Rai del cambiamento debba essere servizio pubblico e fare informazione per tutti gli italiani e non soltanto per una parte.
Quale potrebbe essere il suo apporto nel CDA Rai?
Ho lavorato 8 anni in Rai ricoprendo un ruolo manageriale nel settore dell’offerta Internet; l’intera offerta presente l’abbiamo costruita con l’unica vera digital factory, Rai Net, che ha sviluppato tutto il web business. Ho lavorato con ottimi manager come Alberto Contri e Piero Gaffuri, e molti dei dirigenti che lavoravano con me in quell’azienda ora sono dei manager affermati nell’azienda sia nel campo editoriale che nella corporate, segno del grandissimo valore di quell’esperienza. Oggi la Rai, che è una media company, deve trasformarsi in una transmedia company, cioè una grande azienda che produce non solo informazione ma anche immaginario simbolico per il Paese: nuove narrazioni, cercando di contaminare nuovi linguaggi. Il ruolo delle rete e della digitalizzazione è sempre più importante.
Laureato in Lettere e archeologo di formazione, perché ha deciso di occuparsi di informazione?
Sono una storico dell’antichità, indirizzi archeologici, soprattutto nel vicino Oriente antico, quello fa parte di una mia precedente vita, di un passato giovanile che ho percorso con grande risultati e grande passione. L’evoluzione dei linguaggi e della comunicazione è quello che mi è sempre interessato e che ho sviluppato, e soprattutto insegno ancora oggi nelle università, è il modo in cui evolvono gli strumenti di comunicazione e di costruzione delle relazioni tra gli uomini all’interno delle società; è un elemento importantissimo che non viene spesso valorizzato ma che è il fondamento della costruzione dei percorsi evolutivi delle società e, quindi, c’è un legame diretto tra lo studiare una società antica, il modo in cui evolve i propri linguaggi, e la profonda accelerazione dell’evoluzione delle tecnologie delle comunicazione nel mondo moderno.
La globalizzazione ha fallito, perché secondo lei?
Perché ha prodotto risultati opposti rispetto a quelli che aveva preconizzato e ha fallito rispetto alla dimensione dell’Occidente, che ha prodotto il processo di globalizzazione; noi lo vediamo solo come un fenomeno economico, ma è anche tecnologico, perché attraverso l’evoluzione degli strumenti il mondo appare molto più piccolo e più unito. La globalizzazione economica ha fallito perché non ha prodotto maggiore ricchezza ma povertà o, meglio, sta producendo un fenomeno molto pericoloso: la bipolarizzazione del sistema, una grande concentrazione di ricchezza in un numero sempre più ristretto di persone, con un impoverimento complessivo del resto della società. Si vanno definendo una élite sempre più ricca e una massa sempre più povera. Quello che sta avvenendo in Occidente è un pericolo di tenuta dei sistemi democratici e rappresenta la fine della classe media, la morte di quella che un tempo si chiamava borghesia ed era trainante delle democrazie. Questo è un fenomeno che dobbiamo evitare.
Il crollo del ponte di Genova può diventare spartiacque tra il passato e il futuro della politica italiana?
Sì, perché quel che resta della tragedia è il fallimento delle politiche di privatizzazione su cui si è fondata la politica italiana negli ultimi 20anni. Io sono sempre stato favorevole ai processi di privatizzazione. Quando però privatizzare significa generare un meccanismo di non competività e non efficienza, non si fa privatizzazione, ma si statalizza il privato. Altra cosa è il libero mercato. Quello che sta emergendo è come in questi anni, in Italia, i processi di privatizzazione effettuati e di impoverimento del patrimonio dello stato, non hanno generato efficienza ma disastri, a questo punto rimettere tutto in discussione è necessario.
La cultura può aiutare l’uomo a proiettarsi dall’io al noi rivalutando il concetto di comunità e di piccole patrie?
Sicuramente sì, per cultura noi intendiamo la dimensione dell’uomo di uscire da se stesso e la capacità di costruire un percorso d’immaginario che tenga legato l’io al noi. Il rapporto ad esempio con le identità nazionali in questi secoli è stato fondato su questo continuo equilibrio e cioè la propria individualità e quello che è il senso di responsabilità verso quello noi riteniamo essere la lealtà nazionale. Questo è un lavoro, prima che politico, metapolitico, cioè culturale. Una costruzione dell’immaginario che tenga unite le persone condividendone aspirazioni, percorsi storici, identità memoria, e quindi anche cultura. Il nostro è un paese fondato sulla cultura, non solo perché è un giacimento di produzione culturale e immaginifica di cultura materiale e visiva ma è soprattutto un paese che ha sempre avuto un’esperienza di elaborazione della propria identità che l’ha fatto faro nel mondo. Credo che in qualsiasi progetto politico e di rivitalizzazione del senso di cittadinanza sia strettamente legata alla capacità di valorizzare la nostra identità e la nostra cultura, questa è la scommessa da giocare nella nostra Italia.