Nicola Guaglianone: “La scrittura è la linfa vitale del cinema italiano”

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foto GuaglianoneNicola Guaglianone si è formato alla scuola di Leo Benvenuti, nel 1999 si trasferisce a Los Angeles dove frequenta seminari di sceneggiatura e struttura narrativa. Nel 2004 firma il soggetto e la sceneggiatura del corto Il produttore con il quale ha inizio il sodalizio professionale che tutt’oggi lo lega al regista Gabriele Mainetti. Guaglianone scrive e Mainetti dirige. Insieme realizzano, tra gli altri, i corti Basette, finalista ai David di Donatello 2009, Tiger Boy, vincitore del Nastro d’Argento 2013 e finalista all’86esima edizione degli Academy Awards nella categoria Live Action Short, e il loro primo lungometraggio per il cinema Lo chiamavano Jeeg Robot. Il film diventa il caso cinematografico del 2016 e vince 7 David di Donatello. Nicola Guaglianone ottiene una candidatura per la migliore sceneggiatura, la seconda dopo quella ricevuta l’anno precedente per il corto Due piedi sinistri (premiato successivamente con il Globo d’Oro). Firma poi il soggetto e la sceneggiatura del film Indivisibili, diretto da Edoardo De Angelis e presentato in anteprima alle Giornate degli Autori alla 73esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Riceve per il terzo anno consecutivo una nomination ai David di Donatello e vince. Viene premiato per Indivisibili anche con il Nastro d’Argento per il soggetto.  All’inizio del 2017 trionfa al botteghino insieme a Ficarra e Picone con la commedia L’ora legale, scritta insieme ai due comici, Edoardo De Angelis e Fabrizio Testini. Firma con Carlo Verdone la sceneggiatura della sua nuova commedia Benedetta Follia. Ha inoltre terminato di scrivere il nuovo film del regista Gabriele Mainetti prodotto da Lucky Red Freaks Out ed è tra gli autori di Suburra, prima serie italiana a sbarcare su Netflix e prodotta da Cattleya e Rai Fiction. L’1 febbraio esce nelle sale Sono tornato, sceneggiato insieme al regista Luca Miniero.

Qual è secondo te lo stato di salute del cinema italiano al momento? Si dice che non sia più quello di una volta.

Per anni abbiamo sentito il de profundis del cinema italiano, ma io credo che in questo momento il cinema italiano non se la passi poi così male, anche se si dovrebbe intervenire di più sulla formazione di registi e sceneggiatori. Qualcosa si sta muovendo e credo che ciò dipenda dalla scrittura. Si è realizzato che i film che hanno avuto maggior successo in questi ultimi cinque anni sono stati quelli che hanno messo la scrittura al centro della produzione. Questa scrittura è la nuova linfa vitale del cinema italiano come succede nelle serie televisive in tutto il mondo. Non conta più solo il regista – che nella maggior parte dei casi ha una visione estetica – ma assumono importanza fondamentale sceneggiature che sappiano rispettare un arco drammaturgico, un percorso narrativo, raccontando personaggi che subiscono un cambiamento e soprattutto ricerchino quello che gli americani chiamano “high concept”, ossia delle idee forti. La cosa più importante quando fai un film è l’idea e come quell’idea viene sviluppata.

Non credi che ancora adesso l’offerta del cinema italiano sia troppo saturata da commedie che, a parte qualche esempio, sono troppo sovrapponibili e addirittura con lo stesso cast?

Questo dipende dalla supponenza di quei produttori che pretendono di sapere con certezza quello che il pubblico vuole vedere e, invece di impegnarsi a creare un nuovo immaginario e a intercettare i gusti della gente, si affidano al passato. Questo atteggiamento ha prodotto commedie interpretate spesso dagli stessi attori, promosse con locandine simili e che proponevano gli stessi conflitti morali. Invece bisognerebbe avere il coraggio di guardare avanti, di inventare, di anticipare e creare desideri nuovi. Credo che il pubblico oggi sia in cerca di un cinema diverso, come ha dimostrato Lo chiamavano Jeeg Robot. In questi anni ci sono stati film che hanno fatto capire che si può andare oltre le commedie e il cinema d’autore. Sono convinto che la salvezza del cinema italiano sia da ricercare nel cinema di genere perché propone un tipo di racconto che gioca con degli stereotipi e dei cliché per ribaltarli e dare vita un nuovo immaginario.

Vedo dei prodotti anglosassoni bellissimi sullo sfondo storico-politico, penso a L’Ora più buia che parla di Churchill, alla serie The Crown. Ma noi italiani con tutto il patrimonio storico che abbiamo non potremmo attingere dalla storia? Creare una serialità, una produzione che rianalizzi la nostra storia nel dopoguerra ad esempio, non potrebbe essere un filone da sfruttare di più?

Assolutamente sì. A me questo è quello che piace fare è inserire il fantastico in contesti iperrealisti, usare una cornice e un contesto storico reali ma contaminarli con immaginari fantascientifici. Penso a Watchmen. Perché in Italia non dovremmo pensare di poter fare un film come questo? Non possiamo raccontare la storia del nostro Paese attraverso gli occhi di un immortale, di un vampiro?

Jeeg Robot che è stato il tuo grande e meritato trampolino, ma immagino che le tue caratteristiche distintive come professionista fossero presenti anche prima. Secondo te c’è in Italia un problema ad emergere, a far veder il talento? Perché?

Ho scritto numerose serie televisive e alcuni cortometraggi girati da Gabriele Mainetti che contenevano già il seme della mia visione di cinema: unire due universi come il fantastico e il reale, lavorare sul campo emozionale dei personaggi, raccontare storie di bambini, la relazione con il mito che a volte ci aiuta a fuggire dal tragico. Ho portato avanti dei temi su cui ho sempre fatto grandi riflessioni e su cui mi piaceva esplorare. Quanto alla difficoltà di emergere in Italia non posso che confermare. A me è andata bene ma adesso per un giovane è difficile entrare nel mondo del lavoro anche se sono convinto che il talento premi sempre.

Anche Jeeg Robot rischiava di non uscire mai, è stata la vostra tenacia che lo ha trasformato in un successo.

Gabriele ha girato Jeeg Robot senza avere una distribuzione. Fu anche scartato dalla Mostra del Cinema di Venezia a cui tenevamo molto. Abbiamo attraversato momenti bui ma nonostante questo eravamo convinti della potenza e della novità del film e, personalmente, non avevo dubbi sul fatto che potesse entrare nella testa e nel cuore delle persone.

C’è uno degli esponenti della tradizionale e storica scuola degli sceneggiatori italiani a cui ti ispiri?

Io sono un allievo di Leo Benvenuti. Leo è una di quelle persone che mi hanno cambiato la vita, mi ha fatto capire che potevo fare questo mestiere. Poi amo molto il lavoro di Scarpelli, di Sonego, di Luciano Vincenzoni. Quelli erano dei maestri veri.

nicola-verdoneHai nominato Benvenuti che insieme a De Bernardi ha scritto quello che secondo me è il film più amaro e drammatico di Verdone, Compagni di scuola. Parlaci di questo nuovo rapporto con Verdone, che cerca sempre di innovare qualcosa nei suoi film.

Quando il produttore Luigi De Laurentis mi ha chiamato per propormi il film di Carlo Verdone, proprio per il legame che mi univa a Leo Benvenuti, è stata una giornata incredibile e motivo di grande orgoglio. Carlo è una persona meravigliosa, che si stupisce ancora di essere considerato una leggenda. Ho scritto il suo nuovo film Benedetta follia con Menotti. Non abbiamo mai pensato di rinnovare l’immagine di Carlo Verdone ma volevamo al contrario usare l’immaginario verdoniano degli anni’80-’90 per metterlo a confronto con il Carlo di adesso. La scena più emblematica del film è quando il personaggio interpretato da Verdone ha un dialogo con la sua coscienza rappresentata dall’Oscar Pettinari di Troppo forte. Si è trattato di guardare al passato, a quel Carlo Verdone lì, e rivederlo poi in salsa anche pop, come nella scena della danza, del sogno onirico.

Il tuo ultimo lavoro è Sono tornato. Secondo te perché in Italia ancora non è possibile un giudizio storico su Mussolini asettico? È ancora troppo presto per giudicarlo puramente dal punto di vista storico?

Mentre scrivevamo il film ho letto il libro Mussolini immaginario della Passerini in cui era citata una frase meravigliosa detta da Mussolini: «Voi mi odiate perché in fondo mi amate ancora». Ed è vero, perché Mussolini è nel DNA di tutti gli italiani, perché Mussolini, come tutti gli uomini soli al comando, non sono state figure indipendenti che hanno plasmato e plagiato gli italiani a loro immagine e somiglianza, bensì esattamente il contrario. È il popolo italiano che ha espulso personaggi che rappresentavano quelli che erano i loro desideri, le loro paure e speranze.

Se ti chiedessi di scrivere una sceneggiatura per una serie su uno dei grandi personaggi storici italiani, anche contemporanei, su chi ti piacerebbe scriverla?

Mi piacerebbe raccontare l’ultimo gruppo culturale esistito in questo Paese: la Scuola di Piazza del Popolo, con i suoi pittori, la libreria Ferro di cavallo con la bellissima Agnese De Donato. Raccontare come se fosse un romanzo criminale la storia di Schifano, Festa, Franco Angeli e soprattutto di Giosetta Fioroni, allieva di Toti Scialoja e compagna di Goffredo Parise. Quella è una storia d’Italia che mi piacerebbe raccontare in versione crime, in salsa pop art.