Salemme: “Eduardo mi disse: ‘Guagliò, voi siete coraggioso'”

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Torna l’appuntamento di Manzoni Cultura, il format in cui i grandi nomi dello spettacolo italiano si raccontano in modo inconsueto, spontaneo e sincero a Edoardo Sylos Labini.

Vincenzo-Salemme-l-ansia-il-matrimonio-e-la-teoria-del-porcospino_h_partbIl teatro non è che l’incredibile sforzo dell’uomo di dare un senso alla sua vita: Vincenzo Salemme, un senso alla sua vita lo dà ogni sera sul palcoscenico, facendoci ridere con le sue pungenti e sagaci battute. Classe 1957, di Bacoli, se googli il suo nome leggi “attore”, “regista”, “commediografo”, “sceneggiatore”…Ma per noi è semplicemente un grande artista. Ha iniziato con Eduardo De Filippo, che gli ha insegnato una cosa molto importante: il senso e il valore della parola “capocomico”.

Edoardo Sylos Labini: Allora, è da tanto tempo che non torni al Manzoni…

Da ieri sera! Saranno almeno 24 ore! [Vincenzo Salemme è in scena al Teatro Manzoni con ‘Una festa esagerata!’ che sta registrando un grande successo di pubblico. Fino al 1 gennaio 2018, n.d.r.]

Che infanzia hai avuto?

Ho avuto un’infanzia felicissima. E’ stato dopo l’infanzia, che ho iniziato ad avere problemi. Fino ai dieci anni ero il bambino più felice del mondo. Ma poi, ad un certo momento, devi in qualche modo entrare nel vivo della vita: e l’ iniziamo a tradirci, a fare compromessi, a dimenticare chi siamo…E poi ci metti quarant’anni per tornare ad essere quello che eri i primi dieci anni. Diciamo che adesso sto inziando a stare meglio. Dai 10 ai 50 la vita è stata abbastanza…difficile. Però, per carità, è stata una vita fortunata!

Ma ti ricordi la prima volta in cui hai detto ai tuoi genitori: “Voglio fare l’attore”?

No, non l’ho detto: l’ho fatto e basta. Non è un mestiere che…”si dice ai genitori”. L’attore è una cosa talmente “astratta” che è una scelta di vita, lo intendevo allora e lo intendo ancora oggi. Dissi semplicemente ai miei genitori che intendevo interrompere gli studi universitari perché volevo fare l’attore. La mia fortuna è stata Eduardo De Filippo, perché se non avessi iniziato con lui, per un genitore sarebbe stato difficile accettare un futuro incerto per il proprio figlio. Il fatto che io a 19 anni fossi già entrato nella compagnia di Eduardo è stato per loro un motivo di grande orgoglio: era un mestiere sì precario, ma col migliore uomo di teatro del Novecento.

Ma com’è stato il primo incontro con De Filippo?

Un attore della compagnia di Eduardo, Sergio Solli, mi disse che a Cinecittà registravano le commedie di Eduardo: dovete sapere che registrare una commedia era un impegno lungo, ci volevano due mesi, era quasi un film. Solli mi chiese se volessi fare la comparsa, mi portò da Eduardo e una volta arrivati dal lui, dal “Direttore” come lo chiamavano, disse: «Direttò, ‘stu guagliò vorrebbe fare la comparsa»: Eduardo mi guardò: colpito dalla mia magrezza, pensando che non avessi i soldi per mangiare, disse: «No, no, facciamogli dire qualche battuta, così prende la paga da attore». E così fu: mi fece dire una battuta. La commedia era “Quei figuri di tanti anni fa“, era una bisca e io puntavo al tavolo da gioco puntando 5 lire. La scena era stata ripetuta più volte. Pupella Maggio, che lavorava con Eduardo, fu colpita dal fatto che dicessi la battuta con grande precisione e disse a Eduardo: «Eduà, ‘sto guagione me pare bravo, perché non gli fai il provino per la prossima commedia?». Bene, la commedia successiva era “Il cilindro“, un atto unico e mancava il personaggio del giovane, un personaggio abbastanza importante: Eduardo decise di farmi il provino. Sergio Solli mi disse: «Se ti chiede di fare il provino da solo o con gli altri, tu dì che lo vuoi fare con gli altri». Andai all’appuntamento, salutai, mi guardò e disse: «Voi volete fare il provino?». «». «Ma da solo o con gli altri?». Dieci secondi di silenzio, pensavo tra me e me ‘speriamo che quello là non mi abbia detto una cazzata’… mi si fermò il cuore e risposi. Mi disse: «Bravo, siete coraggioso». E insomma, alla fine rimasi nella sua compagnia, venimmo anche qui al Manzoni, nel 1980 e anche dopo, quando si ritirò, con lui e col figlio, fino al 1992. Quindici anni insieme: dal 1977, l’anno “delle 5 lire”, al 1992.

cilindro03-78Ma lui com’era dopo lo spettacolo? Faceva le cene al ristorante?

No no, lui aveva già 77 anni quando lo conobbi, però ricordo un episodio un po’ speciale del “dopo spettacolo”: stavamo provando a casa sua “Tre atti unici” e, non so come (pur essendo io un tipo molto disciplinato, sono anche molto distratto), il terzo giorno di prove scordai il copione a casa. Quando arrivai lì, davanti a tutti quei grandi attori, dissi che avevo dimenticato il copione e tutti si misero un po’ a sfottermi, ero l’ultimo arrivato in quella grande compagnia e mi “schifavano”. «E adesso come fai?». Ora, dovete sapere che c’è un metodo nella recitazione, che è quello “del suggeritore”, un metodo antichissimo, ma io, allora diciannovenne, ne avevo solo sentito parlare. Arriva il mio momento e…silenzio. Il “Direttore” mi fa: «Guagliò…non vuoi parlare?». E io gli dissi: «Veramente, avevo pensato di usare il Vostro metodo, di andare ‘a suggeritore’» e lui di rimando: «Ah, ti sei scordato il copione! Il copione non serve a niente, il ragazzo può fare ‘a suggeritore’!». E da allora vado ‘a suggeritore’.

Poi hai continuato per otto anni con Luca [il figlio di Eduardo, n.d.r.]

Sì, Eduardo si è ritirato nel 1981 e ha fondato la Compagnia di Luca De Filippo, nella quale sono entrato: fui l’unico a passare nella compagnia di suo figlio. Sono rimasto con Luca fino al 1992.

E poi?

Poi ci siamo separati, perché nel 1990 cominciai a fare cose scritte da me, fondai una compagnia, prima ET (Emporio Teatro), poi Chi è di scena, tuttora attiva. Facemmo il primo spettacolo nel 1990 in un teatrino OFF, Il Teatro dell’Orologio e avemmo la fortuna che ci venne a vedere Umberto Orsini: gli piacqui e mi segnalò all’Eliseo; così nacque la mia carriera di autore, uscii dalla compagnia di Luca e proseguii con i miei spettacoli, con il primo grande successo “La gente vuole ridere” a Napoli e poi “E fuori nevica“: lo venne a vedere Garinei, era il 1994, che segnalò il nostro spettacolo a Maramotti, il direttore del teatro San Babila. 

Tu che sei un capocomico e hai fatto la scuola di Eduardo, raccontaci un po’ il dietro le quinte…

Beh, esiste un amministratore, che è quello che amministra il pochissimo denaro che circola in teatro, perché i denari del teatro, nell’ambito dello spettaacolo, il cosiddetto show business, sono sempre quelli più sicuri: il teatro è ancora fatto da persone che si danno la parola, è un modo di lavorare che dà meno guadagni ma grandi soddisfazioni. Però bisogna farlo con molta disciplina, perché il pubblico si fida e si affida all’artista: non lo devi tradire. Puoi anche sbagliare uno spettacolo, te lo perdonano se l’hai fatto col cuore. Perchè questo ha il teatro. Al cinema invece basta cha sbagli una volta e ti girano la faccia. A teatro invece ti vogliono bene.

Ma qual è il segreto per far ridere?

Non ho segreti, ma un buon consiglio che vorrei dare è lo stesso che mi diede Eduardo, un grande Maestro: il “segreto” del comico è non pensare di fare il comico, ma di farlo seriamente. Tu, un ruolo lo devi fare credendoci e facendo credere al pubblico che sia bello, perché solo cosìpotrà ridere, avendo la sensazione di ridere con una persona vera. Sennò è una macchietta e non fa ridere.

Un luogo comune vuole gli attori comici tristi nella vita…

Non è difficile essere tristi nella vita, con le cose che succedono. Ma il palcoscenico è il luogo in cui hai la libertà di essere libero dai problemi, per cui vale la pena far ridere. Credo che anche tanti attori drammatici siano tristi nella vita. Siamo persone, abbiamo le nostre maliconie come tutti…Del resto cheìredo che la rista scatiruisca spesso dalle sofferenze, cho non consoce il dolore no può spaer far ridere con profondità. Il teatro, a differenza del cabaret, cjìhe lavora ocn la battuta veloce, lavora in profondità: può permettersi la pesantezza leggera del dolore.

Ma ci sono stati dei momenti i ncui dovevi far ridere ma erano accaduti degli episodi molto drammatici nella tua vita?

Sì, purtroppo capita a tutti: ho perso tante persone. Ma questo vale per tutti.

Eduardo diceva che per farsi capire al Nord bisognava parlare un napoletano piccolo borghese…

Lui usava il termine “italianizzare”…

E come ti spieghi il successo di Gomorra?

Ma guarda, il successo di Gomorra è televisivo: credo che sarebbe impossibile trasferirlo in teatro, il pubblico non capirebbe e ne rimarrebbe deluso: se non capisci il dialetto, non spendi i soldi per andare a teatro. Se io parlassi in napoletano stretto, non avrei il successo che sto avendo. Il pubblico deve poter capire cosa dico.

Ma se per il teatro devi dire grazie a Eduardo, per il cinema ti senti di voler ringraziare qualcuno?

Naturalmente dico grazie a Rita Rusic e a Vittorio Cecchi Gori, perché hanno creduto in me.

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Secondo te, è davvero tramontata l’epoca dei “cinepanettoni”?

Penso che in generale sia tramontata l’idea di poter fare qualsiasi cosa sapendo già il risultato: il pubblico vuole essere sorpreso da wualcosa, dall’originalità. Pertanto, se l’artista fa qualcosa di autentico, qualcosa che veramente gli appartiene, al pubblico piace. Il problema di noi artisti è quando vogliamo fare qualcosa che non è nella nostra natura, ma che furbescamente pensiamo a priori che possa piacere. Ci arroghiamo il diritto di sapere cosa piace al pubblco: o lo sorprendi o non ci sta. Cerchiamo allora di essere autentici: il cinepanettone, se è una ripetizione di un rito già visto, non può piacere.

Ma chi è secondo te il più grande attore comico italiano di tutti i tempi?

Beh, Totò, una vera e propria maschera, qualcosa che va al di là dell’attore. Lo stesso Peppino De Filippo, poi Alberto Sordi, Paolo Villaggio, Aldo Giovanni e Giacomo e Checco Zalone per arrivare ai tempi nostri.

E internazionale?

Stanlio e Ollio: la mia Bibbia. Se li guardassi la viglia di Natale mi metterei a piangere per la commozione!

Ma l’Italia oggi fa più ridere o fa più piangere?

Penso che il mondo sia migliorato. Purtroppo è peggiorato il nostro animo. Siamo spaventatissimi da tutto e ci siamo rimpiccioliti. Ci affidiamo troppo alla tecnologia, che è diventata una gabbia. L’Italia…era davvero spettacolare negli anni Sessanta, c’era una tale gioia di vivere…e tutto questo si è amalgamato al punto che la voglia di sognare ora non c’è più, perché puoi arrivare a tutto con un click. E questo è il problema.

C’è un gesto scaramantico che fai prima di andare in scena?

No, non ne ho. Io sono pieno di paure, ma l’unico posto in cui riesco ad essere veramente forte e libero è quando recito. Infatti mi auguro di morire in palcoscenico, sarebbe bellissimo: «guarda come è bravo a morire quell’attore!», con tutto il pubblico che applaude!