Se un monaco Zen fa il camorrista a “Gomorra”

0
P. Esposito - Ph. credits: Jean m. Laffitau art photography studio Saarbrücken @JeanMLaffitau

pasqualePasquale Esposito vive un po’ ovunque. Tiene workshop in Inghilterra, vive a Amburgo con la moglie e due gemellini appena nati e gira serie tv di successo in Italia. A Napoli, per la precisione. Esatto, Gomorra: sarà O’Sciarmant e, manco a dirlo, darà la caccia al Savastano più giovane. Nonostante il personaggio poco raccomandabile, almeno sul set, Pasquale è un monaco zen e nei suoi workshop propone un non-metodo che è alla base del documentario Something from Nothing di Nick Rizzini. Ed è di questo che abbiamo chiacchierato:

Pasquale, come nasce il progetto di Something from Nothing?

Nasce tutto da Nick, dalla sua voglia di filmare il mio lavoro dopo aver partecipato a miei workshop a Londra. L’ho invitato così a seguirmi all’università di Huddersfield a Manchester dove sono stato chiamato a condividere la mia ricerca all’interno di un Symposium Internazionale su “Performing Arts and Mindfulness” e successivamente a Monaco, dove con la mia compagnia stavo preparando lo spettacolo “A looking glass”. Gli ho detto che aveva piena libertà di riprendere tutto quello che voleva senza condizioni di sorta. Solo una promessa: raccontare in un modo nuovo. L’ho invitato a lasciarsi alle spalle tutto quello che sapeva e che aveva imparato riguardo a come girare e come montare un video e provare a trovare un nuovo modo di raccontare una storia, così da metterlo nella situazione di vivere un’esperienza diretta di quello che io ricerco consciamente.

Ha accettato la sfida.

Ne era affascinato, ma non è stato facile e ci siamo fatti un sacco di risate. Non pensavo che un giovane potesse interessarsi a un senso di verità con così tanta passione. È stato uno scambio generazionale che credo abbia arricchito entrambi, sicuramente me. Io non credo in metodologie e tecniche, piuttosto amo la ricerca, le domande, l’essere pioniere.  Quello che scopro oggi, continuando a ricercare, potrei scoprire domani che non è vero. È un po come per la scienza, la verità è più importante del possedere una conoscenza.

Hai visto il video di Jim Carrey su YouTube?

Milioni e milioni di visualizzazioni e le prime reazioni sono state “Ma questo è pazzo!?” oppure “È fuori di testa”, ma dice cose interessano che, ovviamente, vanno contestualizzate: ormai siamo su un’onda che non potrà più fermarsi, non si potrà più fare a meno di prendere in considerazione di fare i conti con la realtà di se stessi.

Perché tutto questo lavoro su te stesso quando il mestiere dell’attore è spogliarsi di se stesso per interpretare un nuovo personaggio?

Io ho iniziato a lavorare come attore col metodo Strasberg, studiando tra Roma e New York: impari ad usare le tue emozioni personali per rendere vero e reale il tuo personaggio.  Quando invece ho incontrato l’educazione Zen ho cominciato a esplorare la possibilità che essere vero, essere reale, accade come per i bimbi, quando sono immersi in un mondo che per loro è reale: se gli metti una maschera nera e gli dai una spada, loro non interpretano Zorro, loro ad un certo punto si trovano da qualche parte nella loro immaginazione sensoriale e diventano Zorro. Nella mia ricerca ho notato che più che le emozioni personali, sono importanti le sensazioni. E il punto fondamentale è che un’esperienza autentica, che non sia personale, porta una differenza enorme in termini di espressione e comunicazione.  Nel mio lavoro tengo la domanda viva senza una risposta. In tante religioni e filosofie orientali, incluso lo Zen, l’Io non esiste come identità, esiste, invece, il principio di rapporto e relazione, io esisto solo in relazione a qualcos’altro. Quindi per essere vero, reale, ho bisogno che tutt’intorno e in rapporto con me sia reale, logicamente nella mia percezione. Io esisto grazie all’altro, esisto in un principio e una dinamica di reciprocità e co-dipendenza. Niente che sia vivo esiste isolatamente e indipendente, neppure ciò che chiamiamo me stesso.

Ma il mestiere dell’attore si rapporta proprio con tutto ciò che non è reale per antonomasia.

Il punto è riuscire a vivere un’esperienza autentica. Gli attori fingono appoggiandosi a tecniche, chi meglio e chi peggio, preparano tutto a tavolino, ripetono intonazioni ancora prima di entrare in azione con l’altro. Un’esperienza autentica la vivi quando sei implicato in un azione per la prima volta, quando non sai come rispondere, quando riesci a metterti in relazione con qualcosa che non conosci e non hai nessun appiglio di come controllare e risolvere. Quello è uno spazio creativo e spirituale. Se potessi ridurlo ad una frase direi: se sai non esisti, se non sai esisti.  Questa è la chiave creativa, e questo ho chiesto a Nick.

Lasciare che l’azione venga fuori dall’inconscio.

Si, è l’arte di lasciarsi ingaggiare dall’inevitabile. Sui set è favoloso, improvviso e spesso cambio delle battute per renderle attinenti al momento presente.

Per la gioia dei tuoi registi…

E non ti nego che con qualcuno è stato difficile, ma capisco il loro punto di vista.

Non faccio fatica a crederti.

Quello che propongo nei miei workshop e nel lavoro di attore è la possibilità di rendere me stesso uno spazio attraverso cui si vede l’avvenimento, uno spazio dove si vede qualcosa succedere. Un po’ come offrirsi di diventare come una finestra attraverso cui possono seguire un’azione, un avvenimento, così da rendere chi guarda partecipe.  La comunicazione non è mai in quello che si dice ma in quello che sta succedendo nel presente, in quello che si muove, che si vede. Io propongo che il protagonista invece che la persona sia l’accadimento.

Non pensi di togliere un po’ d’immaginazione allo spettatore?

Non credo. Proponendo un accadimento nel ruolo di protagonista, lo spettatore è portato a seguire, a essere attivo, e spesso a completare con la sua immaginazione. Del resto, lo spettacolo vero non accade sul palco o sullo schermo, ma in chi guarda, in chi è testimone.

Noti la ricezione del messaggio nei tuoi studenti?

C’è interesse e curiosità, ma la maggior parte degli studenti mi chiede un metodo, mi chiedono una tecnica che risolva il problema del “Come si fa?”. Noi facciamo esercizi sempre nuovi per evitare che diventi un’abilità. Quello che propongo è di ingaggiarmi dove sono disabile, dove non ho conoscenza. Credo che non ci sia nulla da imparare che non sia mentale, piuttosto c’è tanto da scoprire, da svelare: riuscire a trovare qualcosa dal niente.

Something from nothing.

Ogni fare è contaminato dal conosciuto e crea affettazione; la creatività è basata sullo sconosciuto, sulla sorpresa, sul nuovo. Creatività implica il processo di rispondere per la prima volta, inaspettatamente, inconsciamente. Il processo creativo è saltare consciamente e atterrare inconsciamente.