Nel ‘Far Web’ lo sceriffo ha la pistola scarica e gli impuniti la sfangano

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Matteo Grandi, giornalista, autore televisivo, editore, scrittore, è un'”autorità” nel campo della comunicazione dei social media. Nel 2017 ha pubblicato per Rizzoli “Far Web. Odio, bufale e bullismo; il lato oscuro dei social” e Micol Ronchi l’ha intervistato sull’argomento fake news, cyber gogne, hate speech e altre fattispecie di “reati/non reati” che imperversano  nel web. (Redazione)

Nel Far Web c’è uno sceriffo? Dovrebbe esserci?

Nel Far Web lo sceriffo c’è e ha tanti volti. Quello del buon senso in primis, che non sempre funziona e non con tutti. C’è poi lo sceriffo che ha il volto delle norme civili e penali che valgono fuori dalla rete quanto all’interno della rete, c’è lo sceriffo che ha il volto dei termini di servizio delle singole piattaforme che andrebbero rispettati e fatti rispettare e c’è lo sceriffo che ha il volto del codice di autocontrollo che i colossi del web hanno sottoscritto con l’Unione Europea per rimuovere l’hate speech dalle proprie piattaforme entro 24 ore dalle segnalazioni. Ma evidentemente sono tutti sceriffi con la pistola scarica che non riescono mai a far rispettare le regole fino in fondo. E così sul web permane un senso di impunità diffuso che alimenta e incoraggia il discorso d’odio.

Follow the money: secondo te c’è un giro d’affari sotterraneo legato agli haters?

J Ax ha sostenuto qualche tempo fa che gli haters fanno fatturato, il che può portare a supporre che in molti non combattano questa crociata perché in fondo anche il traffico generato dall’odio fa numero e, di conseguenza, porta introiti. Al di là di questa visione, però, un aspetto economico esiste. Se le piattaforme dovessero “bannare” o cancellare tutti i profili di hater perderebbero numeri ingenti di iscritti e di fatto perderebbero soldi. E sono sempre i soldi a muovere quasi sempre anche le fake news: notizie che aggregano persone intorno a pregiudizi e luoghi comuni. Poi le persone portano clic e i clic portano pubblicità sia all’interno delle pagine Facebook che diffondono le bufale che ai siti di fake news che stanno a monte di quelle pagine. Riuscire, per esempio, a bloccare questi guadagni, magari evitando che gli algoritmi portino l’advertising alle pagine incriminate sarebbe già un primo passo avanti.

La piattaforma Rousseau, il voto online, il web chiamato a governare: cronaca di una democrazia possibile o solo fumo negli occhi che cela un pizzico di Orwell?

Bobbio diceva che non c’è nulla che rischia di uccidere la democrazia più che l’eccesso di democrazia, e per confutare la sua teoria fece una profezia sbalorditiva nel lontano 1984: “L’ipotesi che la futura computer-crazia consenta l’esercizio della democrazia diretta, cioè dia ad ogni cittadino la possibilità di trasmettere il proprio voto ad un cervello elettronico, è puerile. L’ideale del potente è sempre stato quello di vedere ogni gesto e di ascoltare ogni parola dei suoi soggetti: questo ideale è oggi raggiungibile. Nessun despota è mai riuscito ad avere sui suoi sudditi tutte quelle informazioni che i governi possono attingere dall’uso dei computer”. Credo che non ci sia altro da aggiungere.

I social hanno cambiato modo di fare informazione in meglio, ma hanno anche alimentato milioni di fake news spesso impossibili da verificare: che fine ha fatto il giornalismo?

Il giornalismo ha abdicato al suo ruolo di punto fermo in questo mare magnum di becerume. Oggi più che mai avremmo bisogno di un giornalismo autorevole e, soprattutto, credibile, in grado di essere un faro nelle tenebre delle bufale e delle superficialità virali che girano in rete. E invece il giornalismo sembra voler inseguire il web sul suo terreno peggiore, urlando titoli acchiappa-clic, rincorrendo notizie di serie B, incappando nelle fake news come abbiamo potuto assistere nei casi macroscopici della bimba superstite sotto le macerie del terremoto messicano (che in realtà non esisteva) o con l’assurda lista di oggetti ritrovati sul palco dopo il concerto di Vasco Rossi.

Tu vivi tra Milano, Bari e Perugia: il web ha anche connotazioni geografiche?

Se guardiamo questo aspetto attraverso la chiave di lettura dell’hate speech ci sono piccole variazioni fra regione e regione, ma sono convinto che la forza del web sia quella di abbattere le barriere e i muri, in primis quelli geografici.

Cosa fa di un essere umano un hater?

In primo luogo una lacuna cognitiva che gli impedisce di comprendere il contesto in cui si muove. Molti pensano che le sparate online siano qualcosa che vola via con il vento o con un clic, come un insulto gridato in mezzo al traffico. E invece l’odio online, non solo si amplifica ma rimane e permane. La gente dovrebbe iniziare a capire che virtuale è reale, in tutto e per tutto. Poi, credo, che qualcosa dipenda anche dal contesto storico e sociale in cui viviamo. Oggi le ingiustizie e le diseguaglianze sono così palesi e la gente così frustrata che i social media diventano la valvola di sfogo fisiologica di rabbia e frustrazioni.

Violenza verbale, minacce di violenza fisica, molestie, fake news, gogna mediatica. Il web più torbido e squallido che ci si possa immaginare; era prevedibile che sarebbe diventato anche questo?

In un’intervista al New York Times di qualche mese fa Evan Willams, a proposito di web e social, ha ammesso: “Il problema è che non tutti siamo persone perbene. Gli umani sono umani. Non è un caso che sulle porte delle nostre case ci siano serrature. E invece, internet è nato senza pensare che avremmo dovuto replicare questo schema anche online”. Insomma sì, probabilmente si sarebbe dovuto prevedere che il marcio che esiste nel mondo reale si sarebbe fisiologicamente riproposto, amplificandosi, in quello virtuale.

Eppure nonostante la situazione allarmante, in Italia il reato di ingiuria è stato depenalizzato. Come reputi questa scelta?

L’ingiuria in sé non è il male da combattere. Ci sta che alcuni reati cosiddetti minori siano stati depenalizzati. I tempi della nostra giustizia sono già troppo lunghi per essere ingolfati da cause nate per un “vaffa”. L’odio in rete in realtà è qualcosa di molto più profondo. È diffamazione che può rovinare reputazioni e vite, è omofobia, è razzismo, è misoginia con tutte le derive del caso, a partire dal cosiddetto stupro virtuale. Dobbiamo avere una prospettiva più larga e non sentirci l’ombelico del mondo. Il problema non sono i banali insulti sotto un post. Quelli disturbano ma lasciano il tempo che trovano. Io li definisco “l’acufene del web”. Il vero problema è l’amplificazione del discorso d’odio, l’hate speech.

Web e “democrazia” sono a tuo avviso concetti che possono andare “a braccetto”?

Assolutamente sì, ma tanto quanto web e anarchia.

Non sono moltissimi, ma alcuni personaggi pubblici come Mentana o Selvaggia Lucarelli hanno abbracciato la causa del “no al cyberbullismo”. Ma non è pensabile che questa lotta possa essere sostenuta solo da loro. Cosa ti aspetti dallo Stato?

Lo Stato deve costruire consapevolezza dal basso, deve educare, deve prevedere programmi reali e concreti di alfabetizzazione digitale. Mi rendo conto che si tratta di un percorso lungo, ma è la strada maestra da seguire. Però non mi piace sentir parlare di regole per il web o leggi ad hoc, perché le regole, come detto, già esistono. Poi, certo, dovremmo aspettarci qualcosa di più in da Facebook, Twitter, Youtube, Instagram & co. Perché il fatto che oggi, a livello europeo, la percentuale di hate speech rimossi si attesti intorno al 65% è ancora insufficiente.

Eppure nel corso del tempo, sono stati presentati disegni di legge contro il “cyberbullimo” e questi tentativi sono miseramente caduti nel dimenticatoio. Secondo te il 2017 sarà l’anno delle prese di posizione?

Mi auguro di vedere azioni forti, ma non leggi che rischino di imbavagliare la rete o restaurare la censura. La nostra società ha fatto della libertà d’espressione un cardine rispetto al quale non possiamo permetterci mezzo passo indietro. Piuttosto dovremmo insegnare agli utenti che libertà d’espressione non è libertà di insulto. Che se diffami online sei perseguibile esattamente come quando diffami offline. La vera sfida, ribadisco, è culturale. Non dobbiamo commettere l’errore di deresponsabilizzare la società aggiungendo leggi inutili e ridondanti, dobbiamo invece aiutare la società a crescere.

Cosa pensi che ci sia alla base “dell’odio social”? Ma soprattutto cos’è? Un hobby?

Credo che tutto quello che c’è fuori dalla rete esiste e resiste inevitabilmente anche online. L’odio c’è nella nostra società e sarebbe puerile immaginare internet come una sorta di Arcadia delle buone maniere e delle parole al miele. Detto questo credo che molto dipenda dal contesto storico e sociale. Se la gente è incazzata, la rete è il primo posto in cui sfoga la propria rabbia.

Che politica dovrebbe sposare Facebook a questo punto?

Maggiore attenzione alle segnalazioni e più rigore contro le azioni palesemente in conflitto con i propri termini di servizio. Come si possono lasciare prosperare pagine in cui orde di maschi allupati condividono le foto intime delle proprie compagne, invitando gli altri membri a vomitare su quelle immagini frasi oscene e infime pulsioni? Come ci si può girare dall’altra parte di fronte a post razzisti che augurano agli immigrati di morire in mare? Come si può fingere di non vedere pagine e post in cui prendono forma pesanti frasi omofobe? Facebook deve essere più vigile. Ha una responsabilità morale enorme. Ora in Germania questa responsabilità con la cosiddetta “legge-Facebook”, a mio avviso molto controversa, è diventata anche una responsabilità legale. Se Zuckerberg non vuole che anche altri paesi vincolino Facebook a una legge, deve dare un segnale inequivocabile sul fronte della gestione dell’hate speech.

Tra le varie proposte che generalmente vengono fatte per tentare di arginare questo problema, c’è l’inserimento obbligatorio del CF. Ma non credi che sarebbe un deterrente alla semplice iscrizione sulla piattaforma? Mi viene in mente l’esempio di “myspace”: quando il web ha fornito un’alternativa migliore tutti si sono spostati da un’altra parte, ovvero su Facebook. Non credi che potrebbe subire lo stesso destino se si regolamentasse troppo?

La libertà della rete sta anche nella libertà di poter avere un profilo anonimo dal quale magari fare denunce importanti senza rischiare ritorsioni. Certo, il fatto che possa esistere qualcuno che crea profili anonimi con il solo e unico scopo di diffamare, diffondere fake news e creare disinformazione è qualcosa che va contrastato ma trovando forme di contrasto equilibrate che non spazzino via anche il sacrosanto diritto a restare anonimi o celarsi semplicemente dietro a un nickname. La questione invece è a mio avviso molto più preoccupante – quando si parla di anonimato – per quello che concerne pedofilia e reti terroristiche.

Perché è giusto sposare questa causa? Per cosa e per chi si sta combattendo?

Per rendere le persone più consapevoli: del contesto e delle proprie azioni. Vuoi insultare, diffamare, discriminare? Bene, sii consapevole che le tue azioni avranno delle conseguenze, impara a capire che la rete non è una zona franca in cui la legalità è sospesa. Impara a vivere online come offline. Virtuale è reale.

Guardando al futuro e alle nuove generazioni, i cosiddetti “nativi digitali” come ti senti? Ottimista o solo scettico e preoccupato?

Dipende da che punto guardiamo la faccenda. Da un lato essendo cresciuti “sui social e sulla rete” i nativi digitali creeranno sicuramente dei codici di comportamento e di adattamento al nuovo contesto più lucidi e consapevoli. Dall’altro c’è il rischio che i giovanissimi possano vivere il web come la propria unica realtà e questo mi fa temere anche un futuro di persone alienate in cui il virtuale sarà finalmente reale, ma in cui per il reale potrebbe non esserci più posto

2 Commenti

  1. Il web è fondamentale per smascherare le bufale e le manipolazioni dei media ufficiali e messe a punto dal mainstream. Dovunque ci sono sceriffi dell’informazione ci sono distorsioni, deception, manipolazioni e vere e proprie guerre psicologiche e cognitive. Consiglio il volume “Come i servizi segreti usano i Media” di Aldo Giannuli. E poi chi decide che cosa è bufala e cosa è hate speech, e cosa no? Che definizioni ha “bufala” e “hate speech”? No perchè basta farci rientrare anche semplici critiche, per silenziarle…..

    • Elementare Fra! Ogni volta che io o la mia lobby ti vogliamo fare genuflettere a tutto quello che ci pare e tu ci obietti che il nostro ragionamento è opinabile perché… stai usando un insopportabile e fascistissimo hate speech contro di noi e meriti di essere punito, censurato, denunciato e rieducato.

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