“Archizone“: sembra il titolo di un film di David Cronenberg la personale di Alessandro Busci da Antonia Jannone a Milano, galleria storica (dal 1979) il cui ambito di ricerca è il disegno d’architettura declinato secondo un’espressività libera dagli esiti strettamente funzionali e aperta al suo aspetto puramente lirico e visuale.
E secondo me Cronenberg sceglierebbe con gran fervore proprio un’opera di Alessandro Busci a commento iconografico di un suo ipotetico lungometraggio ambientato in una metropoli bagnata da una pioggia di luce e acciaio e azzerata nei suoi abitanti, una metropoli in cui, a “parlare”, sono i baudrillardiani “non-luoghi” (aeroporti, stazioni ferroviarie e di servizio) e i loro “proprietari” assenti: noi che li ammiriamo.
Chi, come il sottoscritto, adora i “paesaggi urbani” di Mario Sironi e Mauro Reggio, non potrà che esser rapito dalle “architetture in divenire” di Alessandro Busci, La Torre Velasca, San Siro, l’aeroporto di Malpensa, spazi incendiati da albori extrafenomenici e illuminati da laghi di cielo vespertini e profondi, che nella loro fissa e sussistente solennità (mai “pulitina”, ma anzi ostentando una “grassa” pittura secondo uno stile che ormai è diventato un classico: smalti su carta e acciaio corten) si de-territorializzano e trasfigurano in spazi sacri: come dice Angelo Crespi, autore del testo pubblicato sul catalogo della mostra, “quelle di Alessandro Busci sono pure illuminazioni, stati d’animo che rapprendono sul ferro […] messi in moto dalla disponibilità di queste architetture di farsi tempio laico“.
In mostra da Antonia Jannone venti opere, dodici smalti su carta 50×70 e otto smalti su acciaio corten di varie misure, più una serigrafia della mappa di Milano realizzata in collaborazione con Gardini Gibertini architetti e stampata in cento esemplari, che raccontano una città in continua divenire e assurta al rango di “place to be“.
Anche se (e questa è una visione assolutamente personale di chi scrive), i luoghi (o “non-luoghi”, appunto) milanesi di Busci sono metafisici e metastorici, pur nella loro immediata riconoscibilità, perdendo un po’ di quella patina di rassicurante “familiarità” e diventando un po’ “altro da sé”, trasfigurandosi appunto e mettendo in moto il pensiero (“generati di quella sostanza che è il pensiero“, per citare ancora dal testo di Angelo Crespi, “anche le immagini degli aeroplani, levigatissimo connubio di tecnica e design, rappresi nell’attimo della sosta tra terra e cielo, tra notte e giorno, esprimono lo stupore dell’umano che trascende se stesso“).
[…] (Tratto da Il Giornale OFF) […]
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