Dal 20 aprile è nelle sale “L’Accabadora”, il nuovo film di Enrico Pau, con Donatella Finocchiaro, Barry Ward e Carolina Crescentini, che esplora la figura misteriosa, leggendaria, arcaica e archetipale della Sardegna di colei che dava “la buona morte” (una sorta di eutanasia primitiva) ai malati terminali. La pellicola, presentata ai festival di Nuoro, Ajaccio, Roma e Shanghai, racconta la storia di Annetta, un’accabadora giovane, molto diversa da quella a cui si è soliti immaginare – nulla a che vedere con quella di Michela Murgia -, che riscopre se stessa e la vita in una Cagliari devastata dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale. Un film ambizioso, che fonde tradizione, storia e mito, scritto dal regista cagliaritano insieme ad Antonia Iaccarino, e prodotto da Film Kairos e dall’irlandese Mammoth Film.
Com’è nata l’idea del film?
L’idea risale al 2004, quando a Santu Lussurgiu, durante un laboratorio di cinema, realizzai un piccolo cortometraggio, “Storia di un’accabadora”, insieme ad alcuni studenti. È una storia che mi affascina da sempre, quella dell’accabadora, dal punto di vista narrativo più che da quello antropologico. Sono molto laico su questa questione [gli antropologi sono discordi nel confermare la sua esistenza], ma mi piace pensare che all’interno di una comunità arcaica come quella della Sardegna ci fosse una figura che riuscisse ad aiutare i moribondi a non soffrire.
Lei lo definisce un “atto di pietas”.
È un gesto bellissimo in sé, di una modernità straordinaria. Io sono dalla parte di chi pensa che gli essere umani debbano decidere come chiudere la loro esistenza. Quando ho iniziato a scrivere il film con la mia sceneggiatrice, c’era un grande dibattito intorno al caso di Eluana Englaro. Ma l’idea di poterlo vedere dalla prospettiva del passato è estremamente affascinante, perché ci fa vedere il problema nella sua nudità, nella sua essenza. Personalmente, penso che l’essere umano debba morire in modo dignitoso.
La sua è un’accabadora giovane, intrappolata in un ruolo che le sta stretto. Possiamo definirla la storia di una donna alla riscoperta della sua identità?
Sì, perché no. Non è una cosa cosciente, ma che avviene in maniera istintiva. Lei vive una “non vita”. Lei esce da questo ruolo quando avviene un cambiamento, che passa attraverso la rottura dell’equilibrio, ovvero quando la nipote irrompe nella sua vita. È una sorta di romanzo di formazione, di una donna che scopre di avere dei sentimenti, in un momento in cui, tragicamente, la modernità arriva nella forma drammatica delle bombe.
Il film è anche un omaggio a sua madre.
Tutti i racconti di guerra di cui ho conoscenza li devo a mia madre, ai mie nonni, a mio padre. Da bambino ascoltavo affascinato queste narrazioni. La guerra è stato un grande romanzo purtroppo, tragico, doloroso, con anche dei momenti di speranza. A volte dentro le tragedie possono rinascere le vite. Quindi, sì, in qualche modo, è dedicato alla memoria di mia madre, che tra l’altro è morta due anni fa, quando avevo appena finito di girare il film. L’ho considerato una sorta di segno: questa storia è iniziata con i suoi racconti ed è terminata nel momento in cui lei non c’era più. Inoltre, nell’ultimo anno di vita, mia madre ha perso la memoria, e questo ha rinforzato ancora di più il mio voler conservare questi ricordi.
I costumi, realizzati da Stefania Grilli con la supervisione di Antonio Marras, hanno un ruolo importante nella pellicola?
Antonio ha lavorato molto sul personaggio [di Annetta]. Noi volevamo che lei avesse un mantello che si caricasse della natura, mentre cammina nella campagna, che ne raccogliesse i colori, quasi. Antonio, in questo, è stato molto prezioso. Stefania è una costumista di grande sensibilità, non avevo mai lavorato con lei ma sono rimasto molto colpito. I costumi insieme alla scenografia, di Marco Dentici, hanno avuto un ruolo fondamentale, senza di essi il film non avrebbe questa forza.
Sul set c’è stato spazio per l’improvvisazione?
La porta della sceneggiatura è sempre aperta affinché entrino nuove suggestioni. Da questo punto di vista, sono un regista che si lascia molto prendere dal set, da quello che succede e anche da quello che gli attori sono in grado di portare. Gli attori vengono scelti anche per la loro capacità di portare delle emozioni, che bisogna sempre ascoltare. Un regista che non ascolta gli altri sbaglia.
Un aneddoto OFF de “L’Accabadora”?
Inizialmente non trovavamo il posto dove girare il film come io l’avevo immaginato, un villaggio piccolo, un po’ western, che fosse quasi metafisico, ed eravamo molto preoccupati. Una domenica, il direttore e l’organizzatore di produzione erano a Collinas e sono stati richiamati da una potente energia, e lì hanno trovato, quasi casualmente, quello che poi sarebbe diventato il villaggio del film. È stato come un segno del destino: il film doveva essere girato a Collinas, dove tra l’altro siamo stati accolti in maniera straordinaria.
Il cinema sardo sta vivendo un momento di grande fermento. Cosa ne pensa?
Veniamo da due David di Donatello, vinti da Mario Piredda e Gianfranco Cabiddu, che sono anche espressione di una grande varietà, una grande ricchezza nelle proposte, anche dei giovani registi. Io sono molto orgoglioso di far parte di questo movimento, sperando che la regione capisca che questa è una risorsa importante e che continui, come ha fatto negli ultimi anni, ad investire nel cinema, a credere in quello che stiamo facendo. Perché il cinema è anche una grande occasione di lavoro per moltissime persone.