Bene o male, chi filosofa con lui deve fare i conti. Alludiamo a Jacques Derrida (1930-2004), padre di concetti come decostruzione e différance, autore, tra gli altri, de La scrittura e la differenza, La disseminazione e Spettri di Marx, e protagonista di una memorabile diatriba con Foucault. Nato in Algeria da famiglia ebraica, francese per cultura, internazionale per destino, Derrida è uno dei grandi filosofi del secondo Novecento.
Al pari di altri, basilare fu per lui la formazione. Correvano gli anni dello strutturalismo alla Levi-Strauss, ci si avviava a un certo relativismo, lui scelse la strada dell’esistenzialismo. Ne testimonia le tappe questo suo libro, La fenomenologia e la chiusura della metafisica (a cura di V. Perego, Editrice La Scuola, pp. 108, € 10), che in realtà tale non è, almeno nelle intenzioni dell’autore, presentando alcuni suoi testi giovanili, tra cui alcune recensioni di testi su Husserl e il saggio che al libro dà il titolo.
Derrida si forma insomma nel solco della fenomenologia di Husserl, lì affina gli strumenti, questa è la sua “officina”. Il metodo filosofico della decostruzione nasce lungo questa scia, lui stesso scrive: “non c’è filosofo oggi che non si definisca essenzialmente in base alla sua relazione con la fenomenologia”. Che egli, grande interprete di Husserl e di Heidegger, erede della tradizione umanistica che Levi-Strauss vuole superare, intende vivificare, rispondendo alle domande lasciate aperte. Derrida in Husserl ritrova le problematiche che il pensiero francese stava affrontando tra gli anni Cinquanta e Sessanta, e nella fenomenologia una “legittima erede della metafisica”. Come a dire che, per quanto fosse a suo tempo il bersaglio preferito dagli intellettuali, la filosofia non era e non è morta. È infatti continuata con lui, nell’idea, tra l’altro, che la fenomenologia sia “l’apertura infinita del vissuto”.