“Lu mare, lu sule, lu jentu”. Il Salento come non lo si leggeva da tanto, fatto di ricordi e natura, in Sciamenescià (Elliot, pp.184, Euro 16), l’ultimo libro del fotografo e scrittore Carlos Solito. Un racconto corale in cui i luoghi rispecchiano gli stati d’animo del narratore, da sempre attento alla bellezza del suo tempo e allo spazio che lo circonda. Le pagine del libro sembrano emanare il profumo degli uliveti salentini mentre le masserie dai colori candidi spiccano accanto all’azzurro del mare che bagna la costa pugliese. “Sciamenescià”, nel dialetto locale, è un invito a muoversi, a non restare fermi, a guardare verso nuovi orizzonti. A riscoprire le proprie origini e una cultura, quella dell’attaccamento alla terra natìa e alle tradizioni, che Carlos Solito racconta coinvolgendo spirito e corpo. Perché è facile affabulare con le parole, ma per il narratore, che ha l’arduo compito di creare mondi reali e immaginari per chi legge, l’esercizio non sempre
dà frutti maturi. Invece nel trittico narrativo di Solito è possibile cogliere le esperienze della realtà anche se nel lavoro dello scrittore viene utilizzato l’espediente di un paese immaginario. “El Paiso”, terra randagia, epicentro di un viaggio beat e irriverente in cui i personaggi vengono ritratti con tutta la genuinità del cantastorie, con sfumature ironiche e la sana leggerezza del made in Sud. L’arte di narrare attraverso le immagini, sviscerando situazioni, vicoli, strade, accendendo i riflettori su quello che in genere si dà per scontato, il bello dei luoghi. E solo un viaggiatore, un meticoloso fotografo e reporter della contemporaneità avrebbe potuto immortalare le immagini con le parole. Leggendo “Sciamenescià” si può notare come in ogni periodo Carlos Solito sia pronto ad accompagnare il lettore nel suo universo letterario, che è caotico ma entusiasmante, povero ma allo stesso tempo ricco di poesia. Che poi uno scrittore diventi ricercatore di un’estetica letteraria è cosa buona e giusta. Solito lo fa da fanciullino ma con un’esperienza da scalatore di vette, navigatore di oceani, paracadutista d’alta quota. E,senza alcun tipo di finzione, l’immaginario diventa reale nel racconto, che esalta il valore dell’appartenenza al luogo natale. “Sciamenescià”, dal titolo, sembra una filastrocca per bambini, una favola naturalistica in cui si vuole quasi educare all’idea del rispetto di posti che esistono e che non vanno abbandonati, perché appartengono alla società di cui, nolenti o volenti, facciamo parte. Da regista qual è, poi, lo scrittore dirige ogni attimo dell’intreccio narrativo muovendo i personaggi in un teatrino spassono e fatto di humour non sempre facile da gestire se non si ha dimistichezza con le parole e con un certo tipo di sarcasmo. Senza essere caustico, piuttosto invitando chi legge a non restare immobile e a tuffarsi in un’esperienza totalizzante negli scorci salentini, in una dimensione dal sapore dolceamaro ma gustosa perché fresca. E fatta di panorami mozzafiato che sembrano fotografati con la polaroid del linguaggio