Una città sull’orlo di un attacco di panico, una calma apparente che è il risultato di gesti reiterati come pennellate ossessive sulla tela: questa la ricetta per calmare il proprio “Panic attack”, omonimo titolo della mostra di Bernardo Siciliano presso la M77 Gallery di Milano, visibile sino al 20 maggio prossimo. L’artista svela ai lettori di OFF alcuni particolari del suo intimo rapporto con la pittura.
Il concept della mostra scaturisce dalla funzione curativa della tua arte, il rituale della pittura che riesce a placare un attacco di panico. Come credi che tale funzione dell’arte possa trasferirsi sul pubblico, in particolare sui fruitori delle tue opere?
Non mi pongo mai il problema del pubblico: non dipingo per gli altri, dipingo esclusivamente per me stesso. Poiché si tratta di un problema terapeutico, il rapporto con la mia arte riguarda solo me stesso, dipingo infatti per il piacere di dipingere. Negli anni sono rimasto affascinato da certi artisti, da un certo tipo di pittura, e in qualche in modo ho instaurato un personale dialogo con la pittura che amo; dipingo per il puro piacere di farlo, ed è proprio un fatto di intimo rapporto fisiologico. E’ ovvio che essere artisti ammirati da un vasto pubblico è davvero piacevole, ma in fondo la reazione dei fruitori della mia arte non m’interessa, non è il motivo del mio dipingere. Ho iniziato a sei anni, dipingevo quello che osservavo dalle finestre di una casa in campagna, perché era l’unica attività che trovavo interessante; in seguito poi, intorno ai dodici anni, ho cominciato ad avvicinarmi più seriamente all’attività della pittura, con la quale cercavo di affrontare la noia. In questa casa c’erano moltissimi libri d’arte che guardavo con avidità, il pubblico non l’ho mai capito, capivo solo me stesso.
Le strade, gli edifici, i luoghi deserti, ci rimandano spesso all’idea di un vuoto interiore. Quanto racconti in questo progetto della tua esperienza personale e quanto descrivi invece il mondo che ti circonda, il luogo dove vivi, ovvero una città “sull’orlo di un attacco di panico”?
Un pittore in qualche modo dipinge sempre un autoritratto, per questo ritengo che i miei quadri siano tutti degli autoritratti. Fondamentalmente dipingo quello che conosco molto bene: i miei amici, me stesso, i luoghi che frequento quotidianamente. Non verrei mai a Milano, per un paio di mesi, a dipingerne i luoghi: io dipingo New York, dipingo quella scala della metropolitana che ho salito e sceso tutti i giorni da vent’anni e che ho osservato senza neanche pensare di dipingerla; ad un certo punto è come se fosse stata la scala a chiedermi di essere dipinta, realizzo quindi di trovarmi di fronte ad un soggetto da dipingere solo dopo una serie di gesti reiterati che lo riguardano. Non sono in grado di raccontare una storia, sostanzialmente racconto il mio privato, che può essere rappresentato nel ritratto di un amico, ma attraverso il quale rivelo sempre un mio stato d’animo.
Il tuo lavoro si contraddistingue da sempre per la maestria della tua straordinaria “mano” accademica. Quanto pensi che in Panic attack la forma sia intervenuta sui contenuti delle opere?
Non credo di avere una tecnica accademica, mi ritengo un autodidatta, me ne sono reso conto specialmente da quando insegno all’accademia a New York, difatti tale tecnica è differente da quella che mi sono inventato. Ritengo che la forma sia d’importanza assoluta nelle mie opere, in generale credo che non esista una buona opera d’arte che non sia un perfetto equilibrio tra forma e contenuti, il solo concetto non è sufficiente ad una buona espressione. Il quadro è un rapporto di equilibrio, seppur precario, tra gesto e immagine.