“C’è bisogno di un protestantesimo degli usi sociali”: così il britannico Herbert Spencer in pieno Ottocento (1820-1903). Pioniere nell’applicazione del positivismo all’evoluzionismo, più che un filosofo è un intellettuale già moderno. Una simile affermazione ha il piglio dell’opinionista: Spencer “protesta” fustigando i costumi della sua società.
D’altra parte, con Auguste Comte, Max Web e Georg Simmel, è un padre della sociologia. Con il consueto acume le Edizioni Mimesis mandano alle stampe un suo testo che coglie nel segno. Si tratta di Manners and Fashion, comparso nel lontano 1854 nel terzo volume degli Essays e uscito solo ora in lingua italiana con il titolo Costumi e mode (a cura di M.C. Marchetti, pp. 80, €5,90).
L’eclettico pensatore seziona il fenomeno “moda” trattandolo come un segno dei tempi e questo ha qualcosa da dire anche al nostro, di tempo. La moda è lo specchio del sovvertimento dell’ordine, della frattura netta tra la società tradizionale e quella industriale. L’incipit la dice lunga: “Chiunque abbia studiato la fisionomia dei raduni politici non può non aver notato la connessione tra le idee democratiche e le peculiarità dell’abbigliamento”. Vale tuttora, se calcoliamo il passaggio dall’era industriale a quella postmoderna.

Insomma, se l’abito non fa il monaco, di certo fa il politico e il militante: basta osservare i comizi di destra o di sinistra per capirlo. “La democrazia tende a una originalità individuale” dice Spencer, spiegando che la moda è lo strumento di declassamento dell’ordine costituito (“gli antichi costumi”) per metterne in discussione la validità. Ce n’è abbastanza per interpretare le intenzioni sulla base di atteggiamenti solo all’apparenza casuali. Questo saggio di Herbert Spencer testimonia l’attualità del suo autore a uso e consumo dei contemporanei: è un libro piccolo, si consiglia di tenerlo in tasca e sbirciarlo osservando i cortei strisciare più o meno educatamente per le vie delle città.