Sergio Castellitto: fare cinema è come fare l’artigiano

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Pluripremiato dalla critica per il suo ruolo ne L’ora di religione di Marco Bellocchio, Nastro d’argento per L’uomo delle stelle di Giuseppe Tornatore, David di Donatello per Il grande cocomero di Francesca Archibugi e per Tre colonne in cronaca di Carlo Vanzina, atteso nella seconda stagione della raffinata serie In Treatment, Sergio Castellitto ha aperto la tredicesima edizione del B.A. Film Festival dichiarandosi fiero della galleria di personaggi nazional-popolari che ha interpretato in televisione: «Sono molto legato a Padre Pio, per la retorica che lo circonda. Un giorno, in camerino, con il trucco sulla faccia, mi guardai allo specchio e vidi mio padre. So come sarò. È un grande privilegio».

La sua carriera è iniziata a teatro.

Non mi sono mai fatto mancare nulla; è un luogo comune affermare che il cinema è più nobile della televisione e il teatro più nobile del cinema. Ci sono fiction fatte bene e pessimo cinema. Ritengo però il teatro fondamentale, è la prima scuola, mi è servita a capire se ero in grado di combinare qualcosa di buono. Tutto quello che ho imparato, l’ho imparato là.

È nel cast di oltre settanta film. Quale esperienza ha tratto?

Recitare è un modo sublime di darla a bere. È un mestiere straordinario, ma faticoso, bisogna essere disposti a soffrire se c’è un tornaconto. Quello dell’attore è un lavoro molto fisico, il set è un’officina. Un attore non deve essere considerato un artista ma un artigiano. La prima cosa è il corpo, i pensieri li vedi attraverso il corpo di un attore, come muove le mani, su quale gamba appoggia il peso quando cammina. Bisogna partire da due o tre verità e costruire il personaggio.
Recitare significa smettere di pensare; la cosa più difficile è non guardarsi. Recitare non è un gesto di verità ma di rappresentazione, significa mettersi in scena. Serve la misura, essere credibili, fare ciò che è necessario in quel momento.

Con quale criterio sceglie i copioni da dirigere o interpretare?

Faccio film che mi piacerebbe andare a vedere. Sono molto empatico nei confronti dello spettatore. A volte piango mentre scrivo una sceneggiatura. Sono essenziale, mi fido delle emozioni. Un film non è la visione del mondo ma una storia, e dentro di essa nascondi la tua opinione.

Come descriverebbe il rapporto tra attore e regista?

È una relazione psicologica interessante, a metà tra menzogna e verità. Con alcuni registi devi dare l’impressione che un’idea sia loro per farla accettare; capita che diriga me stesso all’insaputa del regista. Fare il regista di sé stessi invece è una pacchia. Per Non ti muovere avevo pensato a John Malkovich nel ruolo di Timoteo, poi ho deciso che lo avrei interpretato io.

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Il sindaco di Busto Arsizio, Gigi Farioli, premia Sergio Castellitto

Il binomio cinema e letteratura è molto presente nelle sue opere.

Ho sposato una scrittrice, Margaret Mazzantini, che mi fornisce storie straordinarie. Quello con la letteratura è un rapporto che si frequenta poco, ma è un lusso, qualcuno ha già fatto il lavoro sporco per te. Tu sei un minatore, dissotterri le immagini dalle parole, dietro un tavolo, ad esempio, io posso vedere un rapporto conflittuale tra un padre e un figlio. Senza drammaturgia non c’è nulla, la scrittura è il fondamento di tutto, e qui si torna al discorso del teatro.

Lei ha preso parte anche a produzioni internazionali. Quali differenze ha riscontrato rispetto a quelle italiane?

Per un regista americano un film costato 10 milioni di dollari è un film a basso budget, Nessuno si salva da solo (la sua ultima regia, ndr) è costato meno di 2 milioni di euro, ma il risultato è un’opera che ne vale molti di più. Il cinema è poesia che costa un sacco di soldi, per questo occorre mantenere un rapporto etico con il denaro. Fare film significa superare ostacoli e affrontare cambiamenti, riscrivere continuamente la sceneggiatura, riscrivere con il montaggio. Poi, alla fine, il film te lo riscrivono i critici.