Kant afferma: “Ogni arte che non comunica è fine a se stessa”. Su questa solida base concettuale, si piazza salda e forte l’espressione artistica di Umberto Verdirosi, pittore e attore, figlio d’arte, d’origine piemontese. Un’arte che è messaggio, significato, comunicazione, che indaga e riflette sull’ignoto e sullo spirito, incarnata da un’onnipresente volontà di autentica libertà, scevra da preconcetti e schemi canonici; Verdirosi, moderno e non modernista, per sua stessa definizione, che percorre una strada di ricerca meticolosa, in cui gli oggetti sono subalterni agli individui – che tornano protagonisti – allontanandosi da un’estrema visione materialista. Verdirosi pittore, che accende i colori primari e li rende luce negli sfondi bui, in visioni oniriche in cui si fonde la “quotidiana” realtà razionale e la dimensione metafisica. Poco spazio, forse nullo, è lasciato all’astrattismo concettuale, con uomini pennellati sulla tela, intenti ad affrontare paure e credenze, simboli e momenti, necessità. Il destino, il ritorno, la sorte e l’attesa, arrestando il “passo frettoloso e superficiale” per riflettere sull’intimo, sull’assoluto.
Poi il Verdirosi scultore. Da questi inconfondibili incipit, nasce il “Necrologio del critico d’arte” – definito “antico stronzo”, capace solo di esaltare “artisti defunti” e il Manifesto di Verdirosi, suo personale e accorato j’accuse ai più grandi maestri d’arte del ventesimo secolo, colpevoli, di aver “inquinato” la comunicazione nell’arte.
Un artista maturo e definito che si può racchiudere in queste parole, tratte dal suo libro, Il Buco: “Anche io non amo Fontana, non amo l’astratto, non amo l’impotenza artistica, sono per l’arte che deve far innamorare… Sì, perché il bello innamora e un giovane (fresco di studi) come vuole che si innamori di un taglio, di un concetto che non c’è”.