Stupisce sempre quel genio che svetta sulla “Montagna di sale”

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ANCHE IO ERO OFF, al telefono con MIMMO PALADINO

Ci racconta un aneddoto particolare, un momento significativo della sua gavetta?

I primi passi nell’arte avvengono nello spazio del proprio abitare, si disegna e ogni giorno si scopre di aver fatto un piccolo passo verso qualcosa che non si conosceva. Poi ci sono gli incontri fortunati, si incontra il gallerista che riesce a intuire le potenzialità. Questo per me avvenne tanti anni fa a Napoli con Lucio Amelio, figura ormai importantissima nel panorama culturale della città, colui che ha seminato l’arte contemporanea molti anni prima che la stessa città rispondesse con istituzioni interessanti, come il Museo Madre.

Quanto l’arte può riscattare il nostro Paese in un momento di crisi come questo?

PaladinoÈ strano che questo non si sia mai capito. L’arte, l’architettura, le belle piazze, le nostre città sono il vero patrimonio di questo Paese. L’arte antica, famosa nel mondo, è apprezzata e continuamente visitata, anche se andrebbe tenuta e offerta meglio. L’arte contemporanea è stata sempre un po’ peregrina. Ne parlava anche De Chirico nelle sue famose memorie: aveva un’importante mostra a Londra, il governo italiano non lo aveva sostenuto neanche per le casse di imballaggio! Parliamo di diversi decenni fa e nulla è cambiato.

Con quali materiali preferisce lavorare nelle sue opere?

Sono curioso per natura, ogni volta che scopro un materiale che non avevo mai toccato lo frequento finché non tiro fuori delle cose che mi piacciono. Compreso il cinema, sei anni fa realizzai un lungometraggio su Don Chisciotte, con estrema libertà interpretativa e con un’agguerrita banda di amici che mi sostennero, compreso Lucio Dalla che era Sancho Panza. Con questo film andammo alla Biennale Cinema di Venezia, fu un bel successo.

La contaminazione tra i linguaggi è una delle caratteristiche della sua poetica, ci può raccontare come è nata la collaborazione con Brian Eno?

Un giorno un direttore del British Museum mi disse che Brian Eno amava molto il mio lavoro e mi propose di fare qualcosa con lui. Ci incontrammo e nel sotterraneo della Round House, luogo mitico del rock, realizzammo l’installazione i Dormienti. Per quest’opera mi ispirai ai disegni di Moore, alle figure rannicchiate nei sotterranei in attesa che cessassero i bombardamenti di Londra. Su questa idea preparai una serie di sculture e Brian Eno scrisse una colonna sonora che interagiva con le immagini. Abbiamo collaborato anche per il Museo dell’Ara Pacis di Roma.

Un’altra delle sue opere più famose è la Montagna di sale, esposta prima in Piazza del Plebiscito a Napoli e poi a Milano, sotto le guglie del Duomo. Anche qui, come in altre sue installazioni, i cavalli sono protagonisti: perché il cavallo?

Perché è un archetipo dell’immaginario umano, l’animale che ha sempre accompagnato l’uomo nelle sue vicende. In realtà la Montagna è nata a Gibellina qualche anno prima, come scenografia per un’opera teatrale, La sposa di Messina di Schiller. Qualche anno dopo ho fatto una mostra al Palazzo Reale di Napoli: la piazza era appena stata liberata da un parcheggio, venne quasi spontanea l’idea di fare questo grande lavoro per la città. Il sale a Napoli ha una componente esoterica, magica… se lo portarono a casa e dovemmo continuamente reintegrarlo! Milano mi è sembrata una tappa ideale, mi piaceva l’idea che questa Montagna, nata nel profondo sud, in Sicilia, viaggiasse per tutta Italia fermandosi a Napoli e finalmente arrivasse a Milano, città dove ho vissuto per tantissimi anni.

Lei è tra i maggiori esponenti della Transavanguardia, è d’accordo con chi afferma che il Futurismo è stato l’unico vero movimento italiano del ‘900?

PaladinoSono d’accordo, perché la Transavanguardia non è mai stata un movimento. Se i Futuristi si incontravano nei caffè letterari e Marinetti era l’anima agitatrice del movimento, gli artisti della Transavanguardia forse non si conoscevano nemmeno tra loro. È nata in un momento culturale felice in cui alcuni artisti si sono posti all’attenzione mondiale, ma quasi separatamente. Il termine è anche frutto di un’idea di Achille Bonito Oliva, che teorizzò questo momento dell’arte italiana contemporaneamente all’interesse di alcuni Musei stranieri che – stranamente – avevano già esposto i lavori di questi artisti qualche anno prima. Poi ci si ritrovò ad “Aperto ‘80”, alla Biennale di Venezia, e Bonito Oliva, uno dei curatori, teorizzò in maniera più critica questo momento artistico.

Che consiglio si sente di dare oggi a un giovane artista che intraprende questa carriera?

Io amo fare un lavoro quotidiano, molto metodico, ed è poi lo stesso metodo di Picasso e altri grandi pittori; solo così si può approfondire e capire qualcosa di più, tutto il resto diventa un meccanismo carrieristico che non è interessante e serve a poco. Un giovane artista non deve pensare al successo, deve solo pensare a fare delle belle cose, poi magari il mondo gliele riconoscerà, o forse no… tanti bravi artisti non sono mai stati riconosciuti per il loro valore.

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