Simboli dell’ipermoderno in opere su lastre di acciaio
I paesaggi di Alessandro Busci sarebbero piaciuti a Testori. Ché dei libri di Testori, hanno medesima anima. Se Busci fosse stato di Roma, avrebbe subito il fascino di Pasolini. Se fosse nato negli States, non avrebbe mancato l’appuntamento con Kerouak, più quello giovanile della “Citta e le metropoli” che quello scontatamente “on the road”, sebbene gli scorci di Alessandro rimandino al mito Route66, con le sue pompe di benzina solitarie, che non possono non ricordare Hopper. “I Nottambuli”, l’icona dell’America suburbana, fu dipinta da Edward Hopper nel 1942 e “Gas”, l’icona dell’America sulla strada, è addirittura del 1940. Il pittore di Nyack era di una decina di anni in anticipo su Keruoak. Oltremodo, il fascino delle sue periferie aveva qualcosa di più sintetico e meno grottesco di quanto sul tema avrebbero lungheggiato gli scrittori successivi. Le sue tele ancora oggi sono archetipi di solitudine che resistono al tempo meglio di certa, pur buona, letteratura che appare datatissima.
Sarà il potere delle immagini. Per questo Hopper era in anticipo e Busci non è in ritardo, semmai anch’egli anticipa il prossimo scrittore che volesse rappresentare la solitudine dell’architettura contemporanea, i cui edifici sono cenotafi, sacelli vuoti, “nonluoghi” privi di identità e intercambiabili poiché uguali a ogni latitudine. Ma così è: aeroporti deserti, stadi e torri, fabbriche e grattacieli, anche se appena edificati, simboli dell’ipermodernità, appaiono corrosi, sfibrati nella loro tracotante visibilità, nel loro emergere sfuocato dalla città. Ma non sono le nebbie di Testori a farci vagheggiare atmosfere trasognate quando osserviamo le opere di Busci (da giovedì 13 alla Triennale di Milano), semmai l’intervento degli acidi sulla lamiera a dipingere improbabili cieli ruggine, aranciati come per un interminabile tramonto.
Non c’è però nessun odio per l’architettura. Busci di formazione è architetto e l’ossessione con cui descrive il paesaggio urbano è frutto di passione. D’altronde c’è la consapevolezza che oggi l’arte ha rinunciato a occuparsi di bellezza, preferendo l’informe, mentre l’architettura – per una residua necessità funzionale – continua a produrre cose sensate, cercando l’armonia che della bellezza è uno degli elementi primigeni. Per questo, dipingere architettura è un duplice tendere alla bellezza, nell’oggetto e nella sua rappresentazione.